La prima delle storie appassionanti di Babel riguarda Josè Luis. Josè ha 50 anni e di professione fa l’imbianchino, mestiere che ha imparato in Bolivia, la sua terra d’origine. Non è mai facile adattarsi a un nuovo contesto, ma Josè è stato fortunato, perché ha potuto continuare in Italia la professione che svolgeva nel suo paese d’origine. E che questo fosse un dono, Bergamo, la città che l’ha accolto, l’ha scoperto il 23 marzo 2020.
Perché da quel giorno, ricevuta una richiesta da Confartigianato, Josè è uscito di casa e per mesi si è recato tutti i giorni in fiera, dove, nel momento più duro della pandemia, ha aiutato a costruire l’ospedale da campo della città. Sono stati giorni lunghi, di fatica e di paura, come quella di sua moglie e di sua figlia nel vederlo tornare a casa stremato, racconta Josè.
Ma poi succede qualcosa: come per magia, ogni mattina dentro quel cantiere atipico per Josè la paura e l’angoscia si trasformano in solidarietà e unione. È così che quando, a giugno 2020, Josè
assieme agli altri volontari lascia la fiera, lo fa con la certezza che si sentirà sempre molto legato a quegli operai, suoi compagni in un momento unico. E anche con la sensazione di sentirsi più inserito in Italia, nella sua Italia e nella sua Bergamo.
“È bello lavorare”, afferma, “ma ancora più bello è costruire dei legami”.
Come Josè, anche Afrou è un nuovo cittadino bergamasco ed è consapevole di quanto sia importante per lui costruire legami solidi nella sua nuova realtà.
Ma la sua storia è molto diversa da quella di Josè: Afrou ha 20 anni ed un richiedente protezione internazionale. L’ho incontrato la scorsa estate, quando ha avuto l’occasione di partecipare all’esperienza estiva proposta dalle Acli di Bergamo, la Social Week.
E’ stata una settimana di trekking che l’ha catapultato tra le montagne della val Brembana. Occasione di confronto alla pari con altri giovani, di quest’esperienza racconta che, dopo tanto tempo chiusi in casa per i lockdown, è stato bello avere finalmente la possibilità di stare all’aria aperta.
“Da me non ci sono montagne così alte, di solito non cammino per hobby ma per raggiungere qualcosa. Dopo questi tre mesi in casa, è stato un piacere vedere posti nuovi”.
Ma quest’esperienza è stata soprattutto importante per lui dal punto di vista relazionale. “Qui ho pochi amici”, racconta, “ho vent’anni ma non faccio la stessa vita dei ragazzi italiani; da quando sono arrivato ho conosciuto persone molto gentili ma poi ho smesso di vederle. Facevano cose che io non potevo fare, ho tante responsabilità. Loro a vent’anni sono studenti, vanno in biblioteca, in piscina; io non ho tempo, la mia testa è sempre piena di preoccupazioni”.
Fare amicizia e costruirsi una rete sociale è importante anche per Omar, che ha la stessa età di Afrou ed anche lui non vive da molto in Italia. Giovane studente dell’Università di Bergamo, arrivato dal Mozambico grazie a una borsa di studio, quando si chiede come abbia preso la scelta di partire, racconta: “un proverbio africano dice che chi nasce, vive e muore nel suo paese, non ha vissuto”. Per questo ha colto immediatamente l’opportunità di trasferirsi a Bergamo per studiare.
“Non è stato facile”, continua, in parte condividendo le stesse fatiche di Afrou. “Tutti sono gentili, ma c’è un velo di formalità, a me insolita, che mi ha fatto sentire lo straniero”. Per fortuna non si è arreso, ci tiene a precisare, e superato lo shock iniziale ha fatto amicizia in fretta.
Soprattutto durante la pandemia: “rinunciando alla vita fuori dallo studentato dell’università, dove io abito, abbiamo iniziato a riunirci ogni giorno per condividere cibo, tempo e storie”. Adesso a Bergamo si trova benissimo, ma se gli chiedete se vorrebbe rimanere in Italia a lungo termine dopo l’università, risponde “amo l’Italia ma… casa dolce casa, il Mozambico è il mio paradiso”.
Girando per le vie di Bergamo, è possibile imbattersi in molte storie come quelle di Afrou, di Omar e di Josè. Tutte diverse. Per conoscerle, basta provare a mettersi in ascolto. Da tre anni, il progetto Babel, una rivista delle Acli di Bergamo che vuole raccontare la Bergamo multiculturale, prova a fare proprio questo. Babel nasce per raccontare storie appassionanti.
Scritta interamente da giovani, desiderosi di disegnare insieme un nuovo identikit della nostra città già da tempo multiculturale, Babel racconta come non sia necessario temere Babele, ma bello accostarsi alle differenze con curiosità e rispetto. Per dare un’identità, una storia e un volto ai nuovi cittadini di Bergamo.
Incontrando storie e volti, infatti, non solo si restituisce unicità a persone troppo spesso considerate in gruppo come “i migranti”, ma si scopre anche che l’altro, infondo, non è poi così diverso da me. E forse allora sarà possibile considerarlo, con le parole di papa Francesco, mio prossimo, cioè mio vicino. Approfondisci i temi nel nostro articolo “Immigrazione e politica“.
Prossimo, cioè persona con cui intrattengo rapporti di reciprocità, quei rapporti essenziali a una società che si dica democratica e fondata sul pluralismo. Prossimo, cioè altro sì, ma non lontano. Per questo Babel vuole continuare a raccontare storie appassionanti.
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