“I semi sotto la neve che vedo sono legati lì alla mia vita privata: alla terra, agli amici, alla famiglia”. Non so a chi si potrebbe attribuire questa frase, sta di fatto che è una delle chiose finali di Michele Serra nell’ultima sera di ottobre a Molte Fedi sotto lo stesso cielo, la rassegna culturale delle Acli di Bergamo.
In fondo non è poi così lontano da quel versetto 24 del secondo capitolo del Qohelet che dice “non c’è di meglio per l’uomo che mangiare e bere e godersela nelle sue fatiche”. E non si poteva chiedere altro visto il tema dell’incontro: appunto Qohelet. Ma se volessimo giocare con le citazioni dell’Ecclesiaste potremmo andare avanti dicendo che “Per ogni cosa c’è il suo momento, il suo tempo per ogni faccenda sotto il cielo”. Fino a entrare in quel trip per cui non si capisce più cosa abbia senso e cosa no e in fondo in fondo che cosa sia poi il senso. Sta di fatto che in quella frase ho intravisto alcune traiettorie della sinistra occidentale, schiacciata da un mondo complesso, globale, che in parte ha contribuito a creare ma all’interno del quale si sente un po’ straniera e ingabbiata.
…però alla fine ho voglia di abitare lì, di godermi e perdermi nelle piccole cose
Perché in fondo non si può rispondere alla complessità con soluzioni facili per evocare Artur Bloch (i problemi più complessi hanno soluzioni semplici, facili da comprendere e sbagliate) che sconfesserebbero tutta la tradizione pensante di sinistra, ma allo stesso tempo è così facile perdersi. E allora forse sì ha la sua parte di ragione anche Michele Serra (che peraltro adoro) che tra le righe ci ha detto: è stato bello crederci, da giovane l’ho fatto, forse erano anche altri tempi in cui l’ideologia non era ancora così sgualcita come appare oggi, però alla fine ho voglia di abitare lì, di godermi e perdermi nelle piccole cose. Cosa che peraltro non mi sembra così distante da alcune direttrici tracciate da Qohelet.
E se da un lato mi sale la rabbia e la protesta del giovane che grida “Non è vero, non è così” per poi aggiungere che è il ragionamento di un boomer rassegnato che ha provato a fare la rivoluzione negli anni 70 e ha fallito, dall’altro mi viene da pensare che forse Serra non ha poi tutti i torti. Che senso ha restaurare una collettività che non esiste? A che giova tutto questo?
Ad essere veramente onesto mi sembrano delle domande più che pertinenti quelle che silenziosamente solleva. E soprattutto mi sembra che la risposta di Serra ricalchi fedelmente le traiettorie della sinistra: combattiva sui sacrosanti diritti civili non più eludibili ma sempre più paralizzata da un’autoreferenzialità strutturale che le impedisce di parlare alla base sociale del Paese. Cosa che la destra sa fare molto meglio proponendo ça va sans dire soluzioni piuttosto immediate, contraddittorie ma estremamente efficaci sull’epidermide degli elettori.
La sinistra resta In bilico tra un populismo troppo facile e una dissertazione teorica che non sembra impattare la realtà
E di fronte ad una destra che va a braccetto con un certo tipo di individualismo che tutela il singolo e la sua libertà di iniziativa rievocando presunti valori inossidabili che cosa resta? Spesso resta un’opposizione afona, che non scalda perché ancora troppo elitaria, rassegnata e non abbastanza indignata. In bilico tra un populismo troppo facile e una dissertazione teorica che non sembra impattare la realtà.
Cosa significa essere di sinistra? Dedicarsi e credere al cambiamento della coscienza individuale? Oppure rievocare uno spostamento di masse su dei ben non chiari valori? E se paradossalmente fosse più rivoluzionario accettare che non è tempo per noi, gente di sinistra o giù di lì?
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