Benedetto Croce e il Dio dei viventi 

La comunione dei vivi e dei morti. La poesia di Giovanni Raboni
Novembre 1, 2024
Il primo dei comandamenti
Novembre 3, 2024
Vedi tutti

Benedetto Croce e il Dio dei viventi 

Manzù, Porta della morte, particolare, basilica di s. Pietro

Questa riflessione, che esce il 2 novembre, vuole pagare un debito di riconoscenza ad una pagina del filosofo Benedetto Croce sulla morte, che trovo nel Soliloquio (in «Quaderni della “Critica”», del 1951; morirà nel 1952). Pur in una sua filosofica rigidità, può darci da pensare. 

La vita intera è preparazione alla morte

Croce constata che, a differenza di lui, filosofo, “altri crede che in un tempo della vita questo pensiero della morte debba regolare quel che rimane della vita, che diventa così una preparazione alla morte”. Cioè: la vecchiaia è un tempo in cui, per così dire, ci si specializza nel prepararsi a morire, mettendosi a riposo, magari – aggiungiamo noi – contando su una decente pensione. Eppure egli dice

la vita intera è preparazione alla morte [è un pensiero già di Platone], e non c’è da fare altro sino alla fine, che continuarla, attendendo con zelo e devozione a tutti i doveri che ci spettano. La morte sopravverrà a metterci lei a riposo, a toglierci dalle mani il compito a cui attendevamo: ma essa non può fare altro che interromperci, come noi non possiamo fare altro che lasciarci interrompere, perché in ozio stupido non ci può trovare.

In altre parole: ci penserà la morte a darci il riposo; compito nostro è vivere; che se pensiamo di rubare noi il mestiere alla morte, finiamo per cadere in un ozio stupido. 

Poi porta la sua riflessione sui credenti, su molti credenti: 

Vero è che la preparazione alla morte è intesa da qualcuno come un necessario raccoglimento della nostra anima in Dio: ma anche qui occorre osservare che con Dio siamo e dobbiamo essere a contatto in tutta la vita, e niente di straordinario accade che c’imponga una pratica inconsueta. La anime pie di solito non la pensano così, e si affannano a propiziarsi Dio con una serie di atti che dovrebbero correggere l’ordinario egoismo della loro vita precedente, e che invece sono l’espressione ultima di questo egoismo.

Il filosofo è severo, kantiano nella sua etica dell’imperativo del dovere per il dovere, mentre noi speriamo che Dio pur gradisca propiziazioni finali di atti imperfetti che, almeno in parte, recano segni di ravveduto antiegoismo (di metànoia). E che anche una tardiva riflessione sul senso della morte e sul destino finale sia un atto religioso e un affidarsi a Dio. E che Dio si lasci certamente toccare anche da chi insiste sia pure interessatamente. Ma il ragionamento del filosofo ci fa pensare: anche se non ha del tutto ragione, ha tante ragioni. 

Dio ci chiede la vita, non la fine della vita

“Voi siete in grave errore. Il nostro non è un Dio dei morti ma dei viventi” (Mc. 12,27). Noi crediamo che sia la vita ciò che Dio chiede a noi, sempre, e mai un sospendere la vita, nemmeno per prepararci alla morte. Se mai anticipando la morte dell’egoismo in quella che gli antichi cristiani chiamavano la “morte mistica”. E ci chiede di vivere in pienezza, per quello che ci è possibile, anche la fase finale della vita, non di specializzarci: prima, una vita attiva senza contemplazione che le dia il senso; poi uno sprofondarsi in una vita falsamente contemplativa (o, meglio, direbbe Croce: oziosa), che sa di estrema chiusura, altrettanto egoistica della prima. La perfezione sta sempre, prima e dopo, in una vita mista che cerca il senso del suo essere e del suo agire e cerca di agire costruendo la città dell’uomo secondo quel senso.

Ci sia permessa a questo punto una domanda, a nostro avviso, pertinente. È in questo senso che viene attualmente gestita nella nostra società la “vitalità” dell’anziano, che, in ragione dell’età, si prepara alla morte? Non nascondiamo di guardare con interesse e compiacimento alle tante associazioni per anziani che nascono nel territorio, ma di nutrire riserve sulla loro gestione. È un fenomeno ambiguo. Buone in sé, perché tengono desti relazionalità, cuore e cervello (ma non, come un tempo, la pietà), esse però spesso gestiscono l’attività come disimpegno dalla vita reale. Invece spesso, troppo spesso, l’anziano pensa di essere in credito e di avere il diritto di essere esclusivamente destinatario delle attenzioni della società, non più agente della sua difficile costruzione. Insomma, invece della domanda: “Che cosa fa la società per noi?”, che sa di corporativismo, di vecchiaia e di resa all’attesa, chi è avanti negli anni deve chiedere: “Che cosa possiamo fare noi per la società?” Sa di più giovanile vitalità. E forse aiuta anche a vivere, se non più a lungo, certamente meglio, tenendo desti i neuroni. 

Nulla contro le tombolate o il più moderno e sfizioso burraco, se sono, come hanno da essere, sollievo e ritempramento dello spirito. Ma qualche riflessione sulle sorti del nostro Paese e della nostra Chiesa potrebbe esservi messa in atto. Come pure potrebbe uscire qualche proposta utile al bene comune, non solo all’interesse privato. Oltre che tenere desti i neuroni, sarebbe un esempio di civismo e di religiosità che valorizzerebbe un’età che si vede messa ai margini dal montante giovanilismo. 

Leggi anche:
Roncelli

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *


Il periodo di verifica reCAPTCHA è scaduto. Ricaricare la pagina.