Ecologia transizione o conversione. Nel patto costitutivo del governo attualmente in carica c’era l’impegno di istituire il Ministero della transizione ecologica, sulla scorta di esperienze già in atto in altri Paesi europei tra cui Spagna e Francia. Di fatto il Ministero è stato creato ed affidato al prof. Cingolani. Nel frattempo sono arrivati i primi fondi europei per la ripresa postpandemica e si è svolta la Cop26 di Glasgow, incentrata sulla lotta al cambiamento climatico. Sono test essenziali per verificare quale incidenza abbia questo nuovo ministero nel guidare la politica italiana verso la cosiddetta transizione ecologica o transizione verde.
L’esperienza della Spagna e della Francia rivela alcuni limiti delle politiche, pur virtuose, messe in atto finora in quei Paesi. Riassumendo al massimo, pare di poter dire che, in misura diversa, ciò che è mancato è la possibilità di ricondurre tutte le scelte politiche nei vari settori, energia, mobilità, agricoltura, infrastrutture, ecc., ad un unico grande progetto integrato e coerente.
Il ministero della transizione ecologica, in quel progetto, avrebbe dovuto giocare un ruolo chiave ed avere l’ultima parola. In Spagna il ministero ha determinato forti scelte sulla politica energetica ma non ha potuto “toccare” altri settori determinanti. In Francia lo spazio di manovra è stato anche più ridotto.
Ci si domanda dunque quale sarà lo spazio d’azione del nuovo ministero in Italia. Ma prima ci si chiede quale sarà la visione di futuro immaginata dall’intero governo (sarebbe bello poter dire: dalla società civile, in un grande dialogo con le Istituzioni). Ciò di cui si parla molto è la questione dei combustibili fossili e delle energie rinnovabili.
Se ne parla fra allarmi per la crescita delle bollette energetiche e visioni salvifiche sulla futura fusione nucleare. E’ capitato di sentire qualche esperto (economista) affermare che la gente non ha idea di quanto la svolta radicale, quella che sarebbe necessaria per una seria lotta al cambiamento climatico, costi “lacrime e sangue”. Affermazione seguita dall’implicita conclusione che ciò sia dunque impossibile.
Nei giorni che hanno preceduto la chiusura della Cop26, molti hanno constatato che i cambiamenti auspicati, o “decisi” ma senza potere vincolante, sono solo deboli palliativi. Questo ci porta a riflettere sul binomio concettuale transizione/conversione.
Ciò che i ragazzi del Friday for Future sembrano ribadire con le loro continue proteste, che sembrano impietose verso gli sforzi eroici dei negoziatori di Glasgow, è che manchi appunto un’autentica conversione. Tutto ciò che viene proposto, come già a Parigi nel 2015, non esce da una visione di un modello di sviluppo intoccabile. Si tratta di aggiustamenti, stanziamenti anche cospicui per questo e quest’altro, impegni di riduzione ecc…
Ma non c’è un cambio di visione. La critica al modello di sviluppo che ha creato la devastazione ambientale e sociale, quando c’è, è pura retorica.
Realisticamente credo non potessimo aspettarci in quel contesto una rivoluzione culturale, una conversione, appunto. La conversione ecologica, a cui l’enciclica Laudato Sì dedica il cap. 5.III, dovrebbe riguardare ogni aspetto della vita individuale e familiare. Dovrebbe partire dalla riflessione sul desiderio, sui consumi, sulla responsabilità verso gli altri, soprattutto verso i poveri, sulla responsabilità verso il mondo, l’ambiente, le risorse.
Occorre dunque informazione, educazione, formazione continua. Solo così si arriva a conformare i nostri comportamenti (mangiare, vestire, abitare, muoverci, ecc) ad una visione di armonia e “pacificazione” coll’ambiente e con il resto dell’umanità, presente e futura. Ma ciò non basterebbe.
Non c’è alcuna ingenuità di fronte all’immensità della sfida: occorre agire in reti comunitarie ed accedere, attraverso la pressione ed il controllo democratico, ai luoghi delle decisioni amministrative. A livello individuale tutto ciò implica una seria riflessione su consumi, sprechi, risorse. Sempre a livello individuale è necessaria una presa in carico di qualche grado di sobrietà (non lacrime e sangue! ma libertà e maggior leggerezza…). Ma tutto questo che cosa può significare a livello “alto”?
Recandomi ieri in Val Brembana verso le 7 e 30 del mattino, osservavo la coda di diversi km dei veicoli che scendevano dalla valle per entrare in città da Ponteranica. I mezzi pubblici erano intrappolati, la media dei passeggeri sulle auto era 1,… Se anche tutte le auto fossero elettriche, visto che c’è una grande spinta ai veicoli elettrici, che cosa cambierebbe? Un po’ di inquinamento locale in meno ma nessun vantaggio collettivo sulla mobilità. Se le città, la mobilità, gli spazi, sono stati consegnati all’automobile è inutile cercare aggiustamenti. Parafrasando un grande sociologo ambientalista, W.Sachs,
la vendetta del possesso personale dell’auto è il blocco della mobilità per tutti.
L’idea che il mercato dell’automobile possa essere profondamente ridimensionato dalla lotta al cambiamento climatico è vista come un’eresia e come affermazione antieconomica ed antisociale.
Si sa che uno dei maggiori responsabili delle emissioni sono i voli aerei. Durante la pandemia, visti i forti vincoli agli spostamenti internazionali, molti aerei volavano vuoti per non perdere gli accessi ai porti. Finita la furia della pandemia il volo ha ripreso alla grande e del clima ci si è dimenticati.
A livello locale basta pensare alla smania di espansione dell’aeroporto, in barba alla conservazione dei territori ancora ecologicamente sani, al disagio crescente per la popolazione, all’inquinamento ecc.
E’ ovvio che se le grandi decisioni non ridisegnano il vivere comune (abitare, produrre…) in una visione integrata e per forza coraggiosa, ci si riduce a piccoli passi d’emergenza, sostanzialmente alla cieca e contraddittori. (Leggi anche qui )
Quest’anno noi italiani, in testa il nostro Presidente Mattarella, giustamente amato e rispettato, abbiamo esultato per le olimpiadi, per il calcio, per il superamento delle batoste più grosse della pandemia. Abbiamo esultato anche per il Nobel della fisica assegnato al prof. Giorgio Parisi, diventato di colpo una celebrità, probabilmente suo malgrado.
Non risulta però ci sia stata grande eco ad alcune semplici parole pronunciate da Parisi a Montecitorio, alla riunione preCop26.
“…Aumentare il PIL è un obiettivo in profondo contrasto con l’arresto del cambiamento climatico…”.
Il prof. Parisi, con queste parole, non faceva che richiamare quanto già espresso nel 1968 da Robert Kennedy. Parole inascoltate allora, resteranno inascoltate anche oggi? A Glasgow probabilmente sì, ma forse in luoghi diversi, diffusi nel mondo, piccole o grandi oasi di conversione sono già nate ed hanno solo bisogno di crescere.