Abbiamo lasciato il nostro amico nella notte, sepolto nel muto sigillo di un buio che ci appare definitivo e impenetrabile.
“Precedo l’aurora e grido aiuto, / spero sulla tua parola. / I miei occhi prevengono le veglie della notte / per meditare sulle tue promesse” (Sal 118). Nella paura della tenebra – della nostra storia e di quella dell’uomo – sentiamo salire questo grido e implorazione della luce.
Ci viene in mente, allora, la nostra nascita. Anch’essa viene da una profondità sconosciuta: “non ti erano nascoste le mie ossa / quando venivo formato nel segreto, / intessuto nelle profondità della terra” (Sal 139). E vorremmo tanto che quel nascosto abbandono in cui lasciamo coloro che amiamo, che attende anche noi e ogni uomo, non fosse quello della solitudine e di un silenzio cieco ma la calda intimità di un amore che veglia e accompagna una ignota gestazione, sia pur sottratta allo sguardo. Il mattino di Pasqua i discepoli trovano una tomba vuota, le bende per terra, il sudario piegato.
Dopo averli appena scorsi nel giorno di sabato, riprendiamo in mano e rileggiamo i versi conclusivi di una poesia che Loredana Amaddeo dedica alla Sepoltura di Cristo dipinta da Rembrandt:
… quel corpo
… avvolto tutto
dall’umido manto sottovoce
di Chi tiene in cuore un segreto
immacolato, un’aurora vicina.
Parole che non rimandano a uno spento, freddo vuoto, silenzioso, ma a un grembo, un misterioso caldo respiro e sussurro nel cuore di Dio, un impercettibile lavorio segreto, come di sotterranea sorgente, verso una luce e un’aurora vicina, una nascita, pensiamo. Mai vista prima.
Tutta la simbolica pasquale ha la luce come suo centro: la nuova stagione di primavera e del sole che sorge, la liturgia della luce nella veglia notturna (condizione di buio necessaria all’annunciarsi della luce), con il fuoco e l’accensione del cero pasquale, e poi i tanti racconti evangelici di apparizione di Gesù dopo la Pasqua, ambientati nell’ora in cui l’oscurità della notte cede all’arrivo dell’alba, al sopraggiungere del nuovo giorno.
Tra questi racconti c’è il capitolo conclusivo del Vangelo di Giovanni, con l’apparizione sulla sponda del lago di Tiberiade e la “pesca miracolosa”.
Sullo sfondo teniamo, come suggestione visiva per via della sua magica e straordinaria luce, questo luminoso dipinto di Konrad Witz, del 1444. Pittore svizzero di origini tedesche, egli ambienta l’episodio sul lago di Ginevra e mostra tutta la sua abilità nella descrizione dei riflessi e dei fenomeni di rifrazione sull’acqua (il monte Bianco s’intravede in lontananza, il quadro è disseminato da un’infinità di strani particolari. Pietro è raffigurato due volte: sulla barca prima e immerso poi nell’acqua, nel suo nuovo battesimo incontro a Gesù. Il maestro, immenso nella sua veste di porpora, sembra nuovamente camminare sfiorando l’acqua, riaffermandosi signore della creazione, del tempo, della storia…).
Il racconto di Giovanni è molto suggestivo, luminoso e chiaro, ma di una chiarezza che è come quella dell’aurora: ancora insicura, quasi più assaporata e presentita che distinta e compresa.
Pagina bella ed enigmatica, come sempre nel quarto evangelista, piena di allusioni e presentimenti, di indicazioni che sfuggono, arcane, strane, nuove; non avvenimenti soltanto ma segni, rivelazioni, parole.
Gesù si manifesta “di nuovo”, dopo il nascondimento precedente – della morte e dei suoi incompresi giorni terreni – nell’alba di questo altro giorno.
Disegno sintetico del mistero cristiano e parabola di tutta la vicenda umana: un lavoro vecchio e sterile fatto senza speranza lungo la notte, poi un lavoro nuovo, compiuto all’alba, fecondo perché si appoggia sull’obbedienza e fiducia alla parola di un Altro.
In realtà il cammino passa tante volte da un discernimento e un dialogo che sono difficili e dolorosi. Lo mostra l’impegnativo e bellissimo dialogo tra Gesù e Pietro, con quella reiterata domanda che sollecita un sincero esame di sé: “Mi ami?” e la successiva profezia sul destino del discepolo. Non più l’istintiva scelta immediata, guidata dal desiderio impulsivo, ma la ricerca anche di ciò che non si conosce e non si vuole, per scoprire e riconoscere la vera immagine dell’uomo, di noi stessi.
Facciamo fatica ad accettare che la fede nella resurrezione debba passare necessariamente dalla nostra interiorità e non da qualche sorprendente e sconvolgente evidenza. Il mistero di Gesù Cristo risorto è enunciato dal vangelo in modo discreto, senza apparizioni o sfolgorio di luci, attraverso i segni semplici del sepolcro vuoto e del lenzuolo divenuto inutile, che vengono porti alla nostra interrogazione.
Sembra davvero troppo poco per chi è sempre in cerca di emozionanti “esperienze”, di accadimenti convincenti e quindi acquietanti.
L’uomo, tutto risolto in una esteriorità che lo assedia, cerca in ciò che sta fuori di sé, da spettatore, un ancoramento risolutivo. Quasi che la strada della verità non passasse invece attraverso la sua anima, la sua libertà, la sua decisione. Non passasse, cioè, da ciò che non si può stringere e nemmeno dire, perché dello Spirito “senti la voce, ma non sai di dove viene e dove va”.
L’annuncio di Pasqua vuole raccogliere l’uomo proprio nella sua interiorità, convincerlo che Dio non è lontano, non è altrove, in qualche esperienza straordinaria non ancora vissuta.
È un invito a convertirsi, non a informarsi. A cercare nel cuore quel segreto immacolato e quell’aurora vicina.
Quella luce, bellissima, che anche il pittore ha voluto catturare e offrirci, nella nuova aurora di quello stesso giorno, il primo dopo il sabato, dopo la fine della settimana antica e ormai compiuta. Il primo giorno nuovo.