
Maestà di Duccio di Boninsegna (nel Museo dell’Opera del duomo, a Siena)
I tre giorni che vanno dalla cena e dalla notte del Getsemani fino al mattino di Pasqua non definiscono un tempo concluso da cui siamo esclusi e verso cui rivolgere venerazione o nostalgia.
Essi aprono al contrario un tempo nuovo, un tempo di attesa al quale è concessa una speranza, un tempo che non declina.
“Ogni volta che celebriamo la Messa noi entriamo nel tempo nuovo inaugurato dalla Pasqua di Gesù, entriamo nel secolo eterno, entriamo nel regno di Dio che vince ogni nemico della nostra vita”. (Giuseppe Angelini)
Nella parte posteriore della Maestà di Duccio di Boninsegna (nel Museo dell’Opera del duomo, a Siena), è raffigurata la Passione di Cristo, in ventisei episodi.
Sulla base di una intima e costante adesione ai momenti del racconto evangelico Duccio rielabora i dati iconografici della tradizione bizantina e, pur in una cifra di liturgica e ieratica compostezza, rappresenta gli eventi in modo vivo e concreto, toccandone la verità umana e divina, suscitando una misteriosa risonanza attorno a ogni gesto, figura, oggetto.
Quasi tutti i pannelli della lunga narrazione riuniscono due episodi sovrapposti.
La diversità e pluralità di voci degli evangelisti è necessaria per meglio interpretare la profondità dei gesti di Gesù, per illuminare con differenti sguardi la direzione e il significato delle sue parole. Duccio accosta quindi sullo stesso pannello i due momenti concentratissimi che reciprocamente si rimandano e si rivelano: quello della lavanda dei piedi – narrata solo da Giovanni – e quello dell’ultima cena.
Nella Lavanda dei piedi l’ambiente presenta la stessa impostazione prospettica dell’Ultima cena, situata nella parte inferiore del pannello. L’iconografia bizantina, cui si rifà anche il gesto di Pietro che si schermisce, acquista nuova freschezza. Vivaci e immediate le immagini, numerose e precise le notazioni d’ambiente: i discepoli perplessi e confusi che si confrontano tra di loro, quello di spalle (Giuda?) di cui scorgiamo solo i capelli e la schiena, i sandali scuri, simili a enormi insetti, l’asciugatoio appeso, il catino…
Nell’Ultima cena la nota dominante è conferita dall’evidente tensione psicologica degli apostoli cui Cristo, col boccone in mano, sta per rivelare il nome del traditore.
Ma soprattutto in quella cena del giovedì, che è l’ultima, Gesù vuole rivelare in anticipo il segreto e la speranza di quel cammino di passione che poi i discepoli avrebbero ugualmente vissuto come incomprensibile e senza speranza.
In doloroso contrasto con quel gesto di comunione, in quei giorni e in quelle notti essi si disperderanno, travolti dal terrore volgeranno altrove la loro faccia, spaventati dall’aspetto terribile del volto e del corpo del maestro. Insostenibile.
Eppure, con il segno del pane e del vino, con il gesto della lavanda dei piedi, egli ha già detto le parole ultime e più vere su quei giorni e avvenimenti.
Non sono certo parole di morte, violenza, crudeltà, tragedia…
Occorre piuttosto dire. “Avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine”.
Sino alla misura compiuta, che non è definita dalla morte, ma dall’amore.
I suoi non capiscono, avrebbero capito poi. Le sue parole sono, in questa sera, soltanto appoggiate sul loro cuore stupito, senza riuscire ad entrarvi. Saranno ricordate e comprese poi, compiuto il cammino e bevuto il calice fino alla fine, diventato così manifesto il loro senso, la loro verità e la loro durevole presenza.
Gesù compie quei gesti e pronuncia quelle parole per dopo, per quelli che sarebbero venuti, per noi, fino alla fine dei tempi.
Usciti dalla stanza della cena, i suoi da lì a poco si disperderanno disorientati, così come accade da capo per i discepoli in ogni tempo.
E sempre, di nuovo, egli non si stanca di raccogliere e riunire i molti giorni che ancora ci vedranno smarriti e lontani da lui.
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