Gerhard Richter è considerato uno dei più grandi ed enigmatici artisti contemporanei: la sua è un’opera complessa, con una produzione di lavori pittorici che passano da un accurato naturalismo a un radicale astrattismo di tipo geometrico o informale.
Questa varietà e oscillazione di linguaggi disorienta l’osservatore, ma a ben vedere si tratta di un’indagine sopra un unico tema: quello dell’immagine. Anche quando è “iperrealista”, Gerhard Richter non traduce in pittura “la cosa” (la realtà) ma una sua immagine. Le sue candele, le sue nuvole, i suoi ritratti, singoli o di gruppo, nascono da fotografie di candele, di nuvole e di persone. Anche i ritratti, infatti, sono ritratti di fotografie, svelate e dichiarate dalle sfocature, dall’effetto mosso, dalla riproduzione dei difetti della carta (piegature, strappi).
Quando Gerhard Richter è attento alle forme della realtà è, in verità, attento ai linguaggi della sua riproduzione; traduce in pittura i pregi e i difetti di una realtà riprodotta.
I colori in un campionario che appare infinito
In una serie importante di lavori questo artista analizza in maniera ordinata e geometrica, quasi scientifica, intere gamme di colore secondo scale cromatiche universali, alla maniera dei Pantone, sistemi di codifica e identificazione dei colori impiegati in grafica, in editoria, in tipografia e in tanti altri ambiti. Con questo tipo di catalogazione i colori sono individuati singolarmente, uno ad uno, in un campionario che appare infinito.
Altre volte Richter realizza opere che definiremmo di informale materico, in cui dense colature di colore si sovrappongono, si armonizzano, sfumano, si confondono, messaggere del gesto e risultato del loro mescolarsi sulla tela.
Nel primo caso vi è una lettura ottica, che appare distaccata e scientifica, della qualità e peculiarità dei colori; gli stessi che sovrapposti e accostati daranno vita, mediante “invisibili” puntini o pixel, alle immagini riprodotte nella stampa o sugli schermi elettronici. Nel secondo l’attenzione è alla materia pittorica, l’olio che si mescola e stratifica quasi in aperta autonomia, rimandando però al sapiente, paziente e attento lavoro del pittore sulla tela.
L’immagine e gli elementi che le danno vita, minuziosamente indagati ed esplorati nella loro molteplice diversità, ci appaiono dunque i cardini della sua poetica e ricerca artistica.
La grande Vetrata di cattedrale (alta 23 metri e larga 9) fu inaugurata nel 2007 per la cattedrale di Colonia. Inserita mirabilmente nel transetto sud dell’edificio gotico medievale (semidistrutto e ricostruito dopo i bombardamenti della Seconda guerra mondiale), si compone di 11.500 tasselli di vetro soffiato, di 72 colori. Alcuni quadrati colorati sono stati disposti in modo casuale, altri scelti in base al contesto architettonico, altri ancora attraverso l’elaborazione al computer di sequenze aleatorie.
I campioni di vetro, eseguiti da una antica vetreria seguendo i metodi medievali, si basano sull’opera 4096 Colori del 1974.
A prima vista l’opera appare una seducente astrazione, ma si tratta davvero di un’opera astratta?
Le vetrate, come una festa luminosa, hanno da sempre abbagliato l’uomo per la forza, prima ancora che delle immagini, dei colori: immateriali e incendiati dalla luce, colpiscono l’occhio riverberandosi e inondando lo spazio circostante. Forse oggi, abituati agli schermi luminosi dei nostri dispositivi elettronici, facciamo meno caso a questo “miracolo” della luce, ma le vetrate sono stati i primi stupefacenti schermi dell’umanità, capaci di modificarsi in base al tempo atmosferico e secondo il trascorrere delle ore, uniscono forme, colore, luce a creare immagini che catturano lo sguardo.
Le vetrate e il “miracolo della luce”
È stato suggerito che per Gerhard Richter questa vetrata sia proprio una gigantesca metafora dei nostri schermi sui quali si formano le immagini scomposte e ricomposte in migliaia di pixel (sostituiti in questo caso dagli 11.500 quadrati colorati) che si confondono-nascondono quando guardiamo un’immagine elettronica. Ma perché in questo apparente caos di tessere multicolori non scorgiamo nulla?
Forse, semplicemente, perché nella cattedrale di Colonia siamo immersi in una scala di misura extra umana. L’immagine, composta da questi tasselli colorati come da atomi di materia, non è compiutamente visibile ai nostri occhi, ci supera e ci trascende. Vediamo come è fatto ciò che ci sta innanzi, senza poterlo interamente comprendere, come accade del resto alla nostra vita e per ogni cosa che ci riempie di stupore.
Accanto a questo sguardo sull’imprendibile dismisura del divino, ci pare che l’artista voglia indicare inoltre che in questa “dimensione senza confini” sono comprese, singolarmente e precisamente individuate, innumerevoli componenti, conosciute e necessarie una ad una a comporre questo infinito che tutte le comprende e assume in sé; sorta di rimando al divino corpo mistico di un’immensa fraternità che raccoglie la vicenda umana.
Certamente non è casuale nemmeno la scelta dei 72 colori. È il numero dei popoli conosciuti anticamente, e quindi dei discepoli inviati da Gesù alle genti, a tutti, singolarmente…
Non ci avventuriamo nelle complesse elaborazioni che la filosofia e la teologia tentano, avvicinandosi alla metafisica e alla trascendenza; diverso è il piano dell’arte, che pure sa accostare in profondità il mistero dell’uomo.
Insieme al terrore del nulla c’è la nostra paura di essere per sempre confusi nell’indistinzione opaca di un’eternità impersonale e sgomentante, perdendo per sempre la nostra storia e il nostro nome. Questo l’inizio di Preghiera particolare, di Giovanni Raboni:
È il mio sogno più cupo: sparire nella folla
dei peccatori, fitta e silenziosa
come una migrazione di sardine.
E so che dopo più nessuno
potrà tirarmi fuori, né sapere
qual è il mio nome. (…)
Con l’evocazione simbolica e concentrata dell’arte, questa vetrata custodisce la nostra speranza di essere amati, conosciuti e salvati, tutti, uno ad uno, in una meraviglia di luce e colore.
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