A teatro: “La vita davanti a sé”

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A teatro: “La vita davanti a sé”

Silvio Orlando, in un passaggio dello spettacolo

Iniziata la stagione di prosa al Teatro Donizetti.
Silvio Orlando ha portato in scena il capolavoro di Emile Ajar.
Interpretazione magistrale

Partenza con il botto, quest’anno, per la stagione di prosa al Donizetti, con “La vita davanti a sé”, riduzione teatrale dell’opera omonima di Romain Gary, grazie alla quale l’autore vinse nel 1975 il premio Goncourt, massimo riconoscimento francese. (In realtà, avendolo già vinto in passato e non potendo riceverlo per la seconda volta, aveva usato lo pseudonimo di Emile Ajar).

Silvio Orlando e il piccolo “figlio di nessuno”

Silvio Orlando magistralmente, secondo me, ne ha curato appunto la regia e la riduzione, di cui è unico interprete e che è un monologo del protagonista, un ragazzino arabo di dieci (forse 14) anni, Mohammed detto Momò, “per fare prima”. Attraverso la sua logica leggera, ironica, naive e spiazzante, tipica dei bambini, le sue risate e domande, ne veniamo a conoscere la storia, che è quella di un “figlio di nessuno” (anche se ha invece alle spalle una vicenda tragica), affidato a Madame Rose, ex prostituta ebrea, sopravvissuta ai campi di sterminio, che si prende cura dei figli indesiderati delle sue colleghe, nel sordido quartiere parigino multietnico di Belleville, abitato e animato da arabi, neri, ebrei, tossici, transessuali.

Questa fauna umana, che Momò chiama invece affettuosamente per nome, dandole quindi identità e sentimenti, sembra appartenere, agli occhi del ragazzino, a un mondo normale e neutro, mondo che in realtà è invece crudele, duro e cinico. Fatto di solitudine, emarginazione, miseria materiale e morale, ma anche, tuttavia, capace di slanci, generosità, amore e solidarietà.

“Toccato dalla grazia”

Gary anticipa così, negli anni ’70, uno dei temi più importanti di oggi: la convivenza tra culture, religioni e stili di vita diversi. A noi, sembra suggerire il testo, occorrerebbero gli occhi di  Momò con cui approcciare questo mondo. Occorrerebbero la sua irresistibile spontaneità, le sue illuminanti considerazioni sui grandi temi dell’esistenza che fanno scricchiolare le sovrastrutture della nostra società di adulti.

Momò vive dunque la sua storia con ironico cinismo, rassegnazione, disincanto e insieme speranza, nella disperata ricerca di amore, di legami e di significato.

Il suo rapporto con madame Rose, il corpo in disfacimento, quattro peli grigi sulla testa, presaga della fine, ahimè, ormai vicina, travalica il legame madre – figlio, forse proprio perché non è biologico, rendendolo ancora più forte e dando luogo a un’improbabile storia d’amore toccata dalla grazia, in un disperato abbraccio contro tutto e tutti.

Il vecchio e il bambino

E il romanzo stesso è stato definito “toccato dalla grazia”, anche per il linguaggio del giovane protagonista, inventato e reinventato continuamente dall’autore nel gergo, nella sintassi, nelle espressioni. Di questa lingua si appropria Silvio Orlando con maestria istrionica, plasticità e grande naturalezza, anche se – ha detto in un’intervista – si sente un po’ troppo giovane (65 anni!) per il personaggio, perché bisogna essere vecchi per interpretare al meglio un bambino, con la semplicità e la fragilità tipiche di queste due età della vita, che pure ne sono agli antipodi.

Alla fine, dopo lunghi applausi, Orlando ha concesso un “bis” molto originale e apprezzato dal pubblico, istruendo un mini – concerto di 15 minuti  con i quattro musicisti dell’Ensemble dell’Orchestra Terra Madre che lo avevano accompagnato durante la rappresentazione, ed esibendosi lui stesso, in modo assolutamente inedito, al flauto traverso.

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