
Mons. Francesco Pellegrini, di anni 92: questo è l’annuncio che abbiamo letto nei giorni scorsi. Da una parte, il dato semplice del nome, dall’altra il dato altrettanto semplice della durata della vita.
92 anni. Di fronte a questo numero, si pensa subito alla straordinaria ricchezza di una vita così lungamente vissuta. Tanto che dobbiamo fare uno sforzo di memoria per ricordarla, e le date che la scandiscono, dalla loro lontananza, ci intimoriscono. Tredici anni curato a Fino del Monte (1955-1968), dieci anni insegnante nel seminario di Clusone (1958-1968), parroco di Cerete Alto (1968-1977), parroco di Valverde in città per quasi trent’anni (1977-2006). Poi gli incarichi e gli anni vicini a noi, quelli di canonico della cattedrale, dal 2006 ad oggi.
Una vita ricca, dunque. Don Francesco, però, non ci ha mai dato la sensazione di fare quello che noi preti anziani facciamo spesso: raccontare i nostri trascorsi di curati e di parroci che, impreziositi dalla lontananza e dal ricordo, diventano un’epopea. Don Francesco ha vissuto i suoi molti anni, li ha fatti diventare la sua vita, senza retorica, forse con un po’ di senso dei propri limiti e del peso del tempo. Nessuna epopea. Dava l’impressione di aver vissuto le sue esperienze perché doveva viverle. Aveva, cioè, un forte senso del dovere. Tanto forte che, qualche volta, quel forte senso del dovere si avvicinava allo scrupolo. Ma, al di là di tutto, il suo modo di fare comunicava l’immagine di una vita fedele ai suoi impegni. La fedeltà, dunque: questa virtù così rara in un mondo così fluido come il nostro.
E’ forse quello che ispirava la sua figura che la gente di città alta aveva imparato a riconoscere facilmente: l’immancabile tonaca, il berretto nero, il passo lento, meditativo: impossibile pensare don Francesco affrettato, non si riusciva a immaginarlo di corsa… non per la sua età, ma per il suo modo d’essere, per il suo carattere. Tutto questo contribuiva a comunicare una certa immagine di tranquillità, di serena adesione a qualcosa che gli apparteneva profondamente: immagine di fedeltà, appunto. Fedeltà a tutto, alle cose e alla forma delle cose, al prete e alla tonaca, alla Chiesa e alle istituzioni della Chiesa.
Anche quelli di noi che non portano la tonaca potevano vedere in quella severa silhouette di prete di altri tempi, l’ammonimento a non banalizzare le cose importanti, i valori della fede, l’impegnativa bellezza del vangelo. I valori della fede non sono una tonaca nera, certo, ma anche una tonaca nera può aiutare a non dimenticarli.
La fedeltà di don Francesco era, però, una fedeltà mite, non battagliera. Si vedeva che era fedele ma non sbandierava la sua fedeltà. Non abbiamo mai sentito don Francesco discutere di grandi questioni teologiche, o accalorarsi per impegnative questioni politiche. Non lo abbiamo mai ascoltato alzare la voce per difendere una tesi, un’idea, una convinzione personale. La sua teologia e le sue convinzioni personali coincidevano con la sua vita. La sua fedeltà si esprimeva anche nelle abitudini: gli orari scrupolosamente osservati delle sue presenze per le confessioni, gli appuntamenti rigorosamente onorati… Tutto questo, forse, era scrupolo. Ma anche lo scrupolo ha, paradossalmente, qualcosa da insegnarci.
Ed è probabile che questo fondo sereno della sua vita sia stato anche fonte della sua innata tendenza alla pace. Non amava scontrarsi. E quando doveva prendere atto di qualche calore eccessivo attorno a lui faceva di tutto per spegnere. Mariana mi ha detto che una frase che ripeteva spesso, anche in casa, era: “Lascia perdere”.
Negli ultimi tempi, quando la malattia era diventata invadente e la memoria si era indebolita, ha ripetuto più volte di voler “tornare a casa”. Forse, mi ha spiegato ancora Mariana, pensava a un appartamento di una delle parrocchie in cui è stato parroco e dove pensava di tornare, una volta andato in pensione… Forse. Ma aveva anche ripetuto diverse volte “si sta avvicinando”. Si era accorto che la morte si era fatta vicina. Allora il desiderio di don Francesco di tornare a casa può essere visto come un misterioso accenno all’avvicinarsi del ritorno a quella che noi chiamiamo, appunto, la “casa del Padre”. Sicché il desiderio di un ritorno a casa di don Francesco è molto simile a quello di persone, anche molto anziane che, al momento della morte, chiamano la mamma.
Al momento della morte, infatti, si ridiventa bambini. L’anziano ha bisogno di tutto, dipende in tutto dagli altri, lo si deve imboccare, lo si deve vestire: esattamente come si fa con i bambini. La fine della vita dell’uomo è molto simile al suo inizio. E si capisce, allora, che, in questo stato di debolezza estrema, il moribondo invochi la sicurezza di una casa o, addirittura, quella di un grembo materno. (Non è un caso che il greco del Nuovo Testamento chiami il grembo materno Koilìa che, alla lettera, significa “cavità”, una grotta in cui il bambino si sente protetto, prima di essere buttato a nuotare nel gran mare del mondo e in cui il vecchio desidera tornare quando la nuotata è finita).
Prendiamo atto, dunque, di questo estremo bisogno di don Francesco, di “tornare a casa”. E, a noi che restiamo, non rimane che dare voce al nostro augurio, tanto scontato quanto struggente: buon ritorno a casa, don Francesco.
“Sono ateo”
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