“Dio ama il cuore che non si stanca di cercare”

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Qualche volta – per esempio, dopo aver ascoltato una predica domenicale in cui il fervore dei toni prevaleva sulla profondità dei contenuti – si è indotti a guardare più in là, oltre i confini visibili della Chiesa, alla ricerca di qualcuno che, da outsider, ci possa comunque aiutare a riflettere sul significato del cristianesimo

Per esempio, uno dei libri più interessanti dedicati negli ultimi anni alla devozione a Maria si intitola Generare Dio: edito da Il Mulino, ha per autore il non credente – ma lui nemmeno gradisce per sé la qualifica di «ateo» – Massimo Cacciari.

La fede cristiana può parlare ancora all’uomo

Umberto Curi, che di Cacciari è personalmente amico, ha insegnato per molti anni Storia della filosofia all’Università di Padova e ha diretto la fondazione culturale Istituto Gramsci Veneto. E’ anche ben noto al pubblico bergamasco, per i suoi interventi al Festival Filosofi lungo l’Oglio (filosofilungologlio.it) e ai corsi promossi su base annuale dall’associazione Noesis (noesis-bg.it).

Recentemente Curi ha pubblicato Parlare con Dio. Un’indagine tra filosofia e teologia (Bollati Boringhieri, pp. 160, 15 euro, disponibile anche in formato digitale a 9,99 euro). L’assunto di partenza di questo libro è che la fede cristiana – ridetta «dal principio», liberandola da loppe e scorie sedimentate nel corso del tempo – possa ancora parlare al pensiero umano, pungolarlo e nutrirlo, anche in un’epoca apparentemente disincantata come la nostra.

Il tentativo di Umberto Curi è quello di ritornare alla forma espressiva originaria di quelle scritture – dell’Antico e del Nuovo Testamento – che per il cristianesimo costituiscono una «parola di Dio» rivolta agli uomini. Già su questo punto, tuttavia, nella Bibbia appare una peculiarità rispetto ai testi sacri di altre tradizioni monoteiste: in essa, la Rivelazione divina non ha il carattere di un positum, di un dato che si affermerebbe da sé, prescindendo dall’atteggiamento del destinatario.

Le “dieci parole”. Giobbe

Consideriamo il racconto della consegna a Mosè dei «dieci comandamenti», così come è narrato – in forme parzialmente diverse – nell’Esodo e nel Deuteronomio: Curi sottolinea che «le “dieci parole” (déka lógous, come si legge nella versione greca dei Settanta) non sono soltanto – né principalmente – l’indicazione di comandamenti. Corrispondono anzitutto ad un racconto – il racconto di un incontro, di un dia-logos, quello intervenuto tra il Signore e Mosè.

Espungere le “parole” dal contesto di questa narrazione, trasformarle in precetti impersonali, cancellare il riferimento a coloro tra i quali corrono i lógoi, rischia di essere fonte di equivoci, apre la via ai molti fraintendimenti che hanno di fatto condotto alla trasformazione delle parole in comandamenti, del contenuto di un dialogo in un monologo».

Analogamente, la vicenda di Giobbe – nell’omonimo libro biblico – smentisce alla radice la pretesa di qualsiasi teologia che voglia costituirsi come un sapere «oggettivo», in terza persona, sul conto di Dio e sulla sua provvidenza. Quando, nei capitoli 38-41, YHWH, Dio, interviene e si rivolge direttamente a Giobbe non gli spiega i motivi per cui lui, che si è sempre comportato giustamente, sia andato incontro a tante sofferenze (la perdita di tutti i suoi beni, la morte dei figli e delle figlie, una malattia orribile per cui, colpito da una piaga maligna che va «dalla pianta dei piedi alla sommità del capo», Giobbe è ridotto a grattarsi con un coccio). 

«Il gesto inaugurale dell’autentica teologia – commenta Curi -, di un autentico parlare a Dio, è un potentissimo grido. Il colmo della parola, del verbo del Cristo, è raggiunto quando sulla croce Cristo grida. Giobbe vuole contendere con Dio, vuole parlargli faccia a faccia.

Una teologia che non parla di Dio ma parla con Dio

Con una precisazione fondamentale. La teologia inaugurata da Giobbe con un grido è una teologia che non parla di Dio, ma vuole parlare a Dio». Alla luce della Bibbia – purché ci si prenda la briga di leggerla – non solo le categorie di una teologia oggettivante finiscono col deflagrare, ma pure quelle di teorie etiche, politiche, giuridiche che pretendano di circoscrivere e dominare i rispettivi ambiti di studio.

Curi rimarca, tra l’altro, come il paradossale insegnamento di Gesù sulla necessità del «perdono» vada e evidenziare i limiti di una dottrina della pena retributiva, per cui la sofferenza del reo dovrebbe corrispondere a quella che con la sua azione aveva arrecato (basta tale corrispondenza, perché il danno venga riparato o almeno alleviato? In realtà, «la pena è già dal punto di vista etimologico dolore, afflizione. E la pena non solo non cancella la colpa, ma aggiunge afflizione ad afflizione. Nessuna pena è capace di reintegrare l’ordine che sia stato violato»).

Come può venire dunque il cristianesimo in aiuto al pensiero, religioso o laico che sia? Ha il compito di ricordargli la possibilità di un ordine diverso da quello «mondano», da quello che rientra immediatamente nel regime del «visibile»?

Secondo Umberto Curi, lo stesso principio biblico di una Rivelazione di Dio non va immaginato come l’ingresso in un ordine di piena manifestazione, in una luce che appianerebbe tutte le pieghe ed eliminerebbe qualsiasi chiaroscuro: la

rappresentazione» meno inadeguata di eventi come la Passione salvifica di Cristo è invece «quella che contiene il riconoscimento della propria inadeguatezza. È quella che dice l’inevitabile unilateralità, l’intrinseca e incancellabile approssimazione, di ogni parola che pretenda di conferire piena trasparenza e intelligibilità a ciò che va al di là dei limiti della conoscenza accessibile all’uomo». 

Riflettendo ancora sulla possibilità effettiva di un dialogo tra la filosofia e la teologia, Curi si sofferma su un principio che dovrebbe fungere da presupposto: 

La rivendicazione cristiana della cosiddetta “verità ultima” non può eliminare o nascondere il paradosso essenziale, e cioè che tale verità rimane indaganda, qualcosa dunque che riguarda non solo la “mente” ma anche il “cuore”, e che in ogni caso allude ad un processo inconcludibile, anziché ad uno stato raggiunto una volta per tutte. Lo scrive già sant’Agostino, quando afferma che “il Dio che si è rivelato nella Bibbia ama il cuore di chi non si stanca di cercare”».

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