Alcune linee del magistero e della pastorale di papa Francesco, insieme alla complessa ricchezza dei suoi documenti, sono state tratteggiate in alcuni articoli di questo percorso a lui dedicato.
Si sono sottolineati l’ampio consenso e simpatia che il papa riscuote, anche da parte di un mondo tradizionalmente lontano dalla Chiesa e, d’altro lato, si è accennato alle frizioni e latenti ostilità di una parte del clero nei confronti del pontefice.
Nella immediatezza del sentire comune sono impresse alcune caratteristiche distintive del papa: la spontaneità del linguaggio e del modo di comunicare, l’attenzione agli ultimi e ai deboli, il richiamo alla giustizia nelle relazioni politiche e nei rapporti di lavoro, la sintonia e vicinanza alla gente, il fastidio per i privilegi del clero, gli inviti costanti alla cura dell’ambiente per salvaguardare il futuro della terra, i continui appelli alla pace…
Sono ricordati gesti ed eventi che paiono simbolici (il papa durante la pandemia in una Piazza San Pietro deserta, a Lampedusa dopo una strage di migranti), e alcune frasi rimaste nella memoria (“la globalizzazione dell’indifferenza ci rende tutti responsabili”, “come vorrei una Chiesa povera per i poveri…”).
Per accostamento e suggestione proviamo a cercare alcuni rimandi a queste sollecitazioni in tre dipinti di Caravaggio, consapevoli peraltro che l’arte non debba fare discorsi direttamente interpretativi o teologici.
Il dipinto potrebbe essere intitolato “Ritratto di un canestro di frutta”, tanta è l’importanza conferita all’oggetto, che non è per nulla generico, ma anzi specifico ed individuale.
La prospettiva è ridotta, appiattita dalla visione frontale, dall’orizzonte che attraversa l’oggetto.
La profondità è invece suggerita e come assorbita dalla corposità dei frutti, espressa in volume e non per linee di fuga prospettiche, ed è quasi negata dal semi-controluce che tende a schiacciare l’insieme, scontornandolo sulla luminosità del fondo.
Il fondo piatto è un intonaco ocra, quasi rivisitazione di quell’oro che dava alle figure due e trecentesche il loro isolamento ieratico e la loro trascendenza. La posizione centrale dà al canestro una grandiosità monumentale, in tensione con l’asimmetria prodotta dal ramo di vite che rompe di traverso l’inquadratura spingendosi oltre al margine del quadro.
È una composizione umile e al tempo stesso monumentale. Perché tanta grandiosità e tanto solenne silenzio, tanta cura d’esecuzione per un oggetto così modesto e quotidiano?
Certo questa non è la semplice allegoria della natura morta come rappresentazione della caducità delle cose e della bellezza. Caravaggio tratta questo canestro di frutta come tratta la figura: ciò che è umile, ciò che sembra irrimediabilmente destinato a corrompersi e svanire, è in realtà avvolto dall’oro, prezioso, sacro, eterno, perché custodito e salvato da Dio. La sua fragilità e caducità diventano sacramento, come per l’uomo.
Scena “di genere” (l’ambiente d’osteria) e scena sacra insieme.
Quale sia Levi, detto Matteo, non è immediatamente chiaro: potrebbe essere l’uomo con la barba, riccamente vestito e dal volto illuminato (come è in effetti), ma potrebbe essere anche il giovane a capotavola, col volto oscurato dall’ombra e intento al conto delle monete. Gesù, immerso nell’ombra, indica in quella direzione, e però la confusione tra Matteo e il giovane torbidamente assorto sul denaro è senza dubbio intenzionale: lo dimostrano le mani, che a un primo sguardo sembrano entrambe del giovane gabelliere ma sono due destre: l’una di Matteo, l’altra del suo vicino; e anche le loro maniche si confondono e poi si distinguono.
L’indice di Matteo è incerto se indicare sé stesso o il suo compagno. Sembrerebbe dire: “vuoi me o quello presso di me?” oppure: “guarda che io sono come lui”; stanno infatti contando, con le loro mani ravvicinate, le stesse monete.
Anche i gesti del tutto simili delle mani che indicano, hanno nel dipinto differenti significati ed espressioni: determinata quella di Gesù, perplesse e interrogative quelle di Pietro (accanto a Gesù) e Matteo.
Dunque, la stessa scena, lo stesso cenno, la stessa evidenza delle cose sono variamente colte dagli astanti: indifferenza, chiusura, sorpresa, interrogazione. La scena “di genere”, l’ambiente d’osteria, è l’ambito quotidiano in cui si manifesta l’evento sacro per chi abbia occhi e orecchi per intendere.
Chi è il chiamato? Quello con il viso già illuminato da una rivelazione o quello con la faccia oscurata? Non saranno piuttosto l’uno e l’altro?
“Non sono venuto a chiamare i giusti ma i peccatori”: Gesù amplia e fa comprendere il senso della chiamata: chiamo te ma chiamo anche l’altro, attraverso te chiamo tutti. E Caravaggio attualizza la scena rivestendo di abiti secenteschi i personaggi: la chiamata è per ciascuno, oggi.
Cristo è nell’ombra, solo il volto e la mano emergono in luce. Egli chiama senza che lo si possa vedere interamente e pienamente: la vocazione, il cammino cristiano, comportano un continuo, difficile discernimento, nella fede.
Secondo alcune letture critiche, la poetica caravaggesca della gente povera e umile sarebbe stata ispirata al pittore dalla corrente pauperistica della Controriforma, da Carlo Borromeo e dal cugino, il cardinale Federico dei Promessi Sposi, autore del trattato De pictura sacra. Nell’ambiente milanese in cui Caravaggio ha mosso i primi passi erano ben presenti queste ispirazioni e questo clima: il pauperismo aveva l’ideale di una Chiesa povera, libera dalla tentazione dello sfarzo e del trionfalismo per essere in grado di parlare meglio ai cuori semplici del popolo di Dio.
Tuttavia, se le cose stessero davvero compiutamente in questo modo, Caravaggio non si sarebbe imbattuto in così tanti ostacoli per fare accettare le immagini commissionategli da chiese e ordini religiosi.
Caravaggio, come ogni grande artista, è insieme pittore del suo tempo, capace di percepire sensibilità e fermenti che lo circondano traducendoli nelle sue opere, ma al tempo stesso è artista che supera e oltrepassa il proprio tempo, per incamminarsi su strade che i suoi contemporanei faticano a recepire e comprendere appieno.
Possiamo dire qualcosa del genere anche per papa Francesco?
Caravaggio era il protetto di Federico Borromeo ma chissà se nel profondo dell’anima non ci fossero più cose che lo univano all’eretico Giordano Bruno condannato al rogo.
Ricordavamo che una delle immagini maggiormente impresse nella memoria di tanti, per il loro carattere iconico e simbolico, è quella di papa Francesco che durante la pandemia prega in una Piazza San Pietro deserta e piovosa, invocando il Signore e la sua prossimità al dolore e alla morte degli uomini.
Nella Resurrezione di Lazzaro troviamo, rovesciata simmetricamente, la stessa figura di Cristo della Vocazione di Matteo: Lazzaro è in piena luce, e Cristo ripete lo stesso gesto del braccio destro alzato, con la mano che chiama e che salva.
Perché, ancora una volta, Caravaggio mette in ombra colui che, insieme a Lazzaro, è l’attore principale dell’episodio evangelico? Proviamo a interpretare: Cristo lo conosci soprattutto attraverso l’impronta decisiva che lascia sulla tua vita, Dio abita dentro di te e fa risplendere il tuo corpo.
Una veste di luce abbraccia il corpo teso e ancora rigido di Lazzaro, quel corpo splendido, disposto a croce quasi a dire che ad ogni uomo tocca un proprio personale patire. La luce investe anche le figure delle persone che lo sostengono: i parenti di colui che torna alla vita, rapito alla morte.
Il resto dei presenti si muove nell’ombra.
Il contrasto evocato da Caravaggio diventa paradossale: sono loro, tutti gli altri, che sembrano immersi nelle tenebre della morte, mentre Lazzaro, che appare tuttora morto, non si è mai realmente allontanato dalla vita.
È assai suggestiva l’interpretazione di Tomaso Montanari, che attribuisce il dolore e il pianto di Gesù, prima del miracolo, alla consapevolezza di sottrarre l’amico al suo riposo destinato alla vita di resurrezione: “è invincibile la sensazione che Lazzaro non voglia: che la sua natura, cioè, si opponga disperatamente a questa innaturale irruzione di un potere sovrumano, che il morto resista all’inutile fatica di tornare in vita per poi, inevitabilmente, morire di nuovo”.
Commovente il particolare del volto della sorella che vuole quasi soffiare la vita nel fratello.
Nel centro quasi esatto del quadro si tende verso l’alto il palmo di una delle mani di Lazzaro; una mano protesa come tante volte accade nei dipinti dell’artista: invocazione, anelito, supplica, gesto creaturale dell’uomo che cerca il suo Salvatore.
È anche, come sempre, unione della luce e dell’ombra, segnale enigmatico dell’oltre frontiera (cui forse alludeva, nella Vocazione di Matteo, la finestra, opaca, né chiara né scura…).
Si dice che Caravaggio, nel dipinto di Davide con la testa di Golia, abbia attribuito le proprie fattezze alla testa mozzata del nemico abbattuto. Il volto sfigurato dalla morte emerge dal fondo scuro: autoritratto che è insieme sberleffo e tragica, disperata confessione.
Ripensiamo a quel volto, alla mano protesa di Lazzaro, a tutta l’umanità povera e splendida raffigurata da Caravaggio.
Così a volte succede che nel buio
si insanguini un volto, una mano
ci implori – così c’è
chi ignora e chi invece ha nel cuore
la comunione dei vivi e dei morti.
(Giovanni Raboni)