“Il vangelo è l’uomo che crea”. Rembrandt e l’intimità dell’arte

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“Il vangelo è l’uomo che crea”. Rembrandt e l’intimità dell’arte

Rembrandt, Autoritratto con berretto e colletto rialzato c. 1659, particolare

Un profeta del nostro tempo: don Sergio Colombo. Dossier/6

Ogni gesto umano, diceva don Sergio, anche il più umile e quotidiano, può avere il carattere della novità creatrice se nasce dalla libertà e dall’ascolto interiore.

Ancor più, davanti a un’opera d’arte è come sperimentare il processo e il mistero della creazione: il mondo e le cose nascono di nuovo, per la prima volta.

È un incontro con qualcosa di familiare e sorprendente insieme, con un sé stesso più profondo, con la trama nascosta del mondo dell’uomo, in una rete infinita di possibili comunicazioni.

Arte come rivelazione e sguardo rinnovato, reinterpretazione del mondo e luogo dell’immaginazione, soprattutto relazione profonda e scoperta umana.

Il rapporto con l’artista sembrava un colloquio

Non si potrebbe intendere il rapporto di don Sergio con l’arte, né la lettura che egli ne sapeva restituire, se non li collocassimo in questo ambito della relazione umana. Come nei suoi incontri quotidiani, anche con ogni artista, vicino o lontano nel tempo, egli intratteneva un rapporto che sembrava un colloquio, un luogo privilegiato di confidenza e intimità (tanto da volerne indagare a fondo, quando possibile, la vita e l’esperienza, per meglio comprendere natura, contesto e origine di un’opera).

Un interesse e passione che toccava ogni tempo e luogo della creazione umana declinata nelle sue molteplici forme, non solo religiose.

Per dar conto, sia pure molto parzialmente, della sua sensibilità di sguardo e accostamento personale facciamo solo qualche esempio, tratto dal racconto a proposito di uno degli autori prediletti.

Rembrandt, forse l’artista più amato

Rembrandt (1606-1669), forse l’artista più amato, capace come nessun altro di farci vedere la Bibbia e la vita, è presente con le sue immagini in tanti numeri della rivista Comunità Redona.

La vita travagliata e il lavoro del maestro olandese sono stati oggetto di un approfondimento anche lungo due serate della catechesi che nel ’96 ha riguardato la storia dei cristiani all’ingresso dell’epoca moderna. Una parabola di vita e di creazione indagata nei suoi risvolti storici e sociali, soprattutto umani, in modo acuto e minuzioso, partecipe, commosso.

La parola accompagnava le immagini proiettate nel buio della sala Qoelet e la voce arrivava come la confidenza dell’amico che parla di un incontro prezioso.

Prendiamo alcuni esempi, all’inizio e alla fine di quel viaggio (sono, inevitabilmente, frammenti di un lungo, articolato racconto).

All’inizio del “viaggio”

La profetessa Anna (ritratto della madre), 1631

La profetessa Anna (1631). “A 26 anni Rembrandt dipinge la madre mentre legge la Bibbia, anzi, mentre sta consumando i suoi occhi nel decifrare la parola. Questa, come fosse acqua, sfugge dalle sue mani, la donna ne prende al volo un flutto che cerca di fermare sulla riva di un’immensa ombra che avvolge il libro. La luce viene dal focolare i cui ultimi bagliori obbligano gli occhi a consumarsi; è la fine della veglia, qualcuno già dorme in qualche angolo della stanza, la fatica ha fermato tutti a uno a uno, le notti sono lunghe e i giorni pieni di problemi. Qualcuno veglia: ha trovato in quelle parole un gran tesoro per le fatiche e gli smarrimenti del giorno. Da anni si china e si misura su di esse; lei è la custode, la sentinella di una fiamma, di un focolare: è la madre che senza dirlo, forse senza saperlo, trae fonte da qualcosa di più profondo di sé stessa. Suo figlio la conosce nella sua fedeltà e umiltà, nella sua autorità; la sorprende senza che lei se ne accorga, e la riveste di un manto e di un velo i cui ori e porpore annunciano la dignità della madre e lo splendore della parola, insieme.

Il quadro dice molto della madre e dice già molto di un pittore che ci costringe a contemplare, a vedere ed amare ciò che ci fa vedere. Chi ha guardato questa madre che legge la Bibbia con le mani trepide ha capito cos’è la bellezza di un corpo anche decrepito; ha visto come si rende visibile la trasfigurazione dei corpi (…)”.


“(…) Gli ultimi capolavori di Rembrandt non sono oppressi dalla tetraggine, dal senso di quell’abisso nero che, ad esempio, Goya o Van Gogh avrebbero visto spalancarsi sull’orlo della morte.

Giacobbe benedice i figli di Giuseppe

Sono invece opere radiose, luce d’ambra e oro, corpi caldi e luminosi, figure che non restano isolate ma si protendono l’una verso l’altra, si toccano, abbracciano, carezzano, rassicurano, instaurano rapporti. Giacobbe benedice i figli di Giuseppe (1656), Isacco e Rebecca o La fidanzata giudea (1663), Ritratto di famiglia (c. 1663-1668). (…) I due ultimi dipinti presentano lo stesso identico gesto: quello di una mano che si posa su un seno femminile (della sposa in un caso, della madre nell’altro). Un gesto che esprime il senso della vita con una profondità che non ha eguale nell’arte occidentale. Esso parla di passione e di pace, di desiderio e di riposo, di natura e di nutrimento, del sentimento della famiglia come rifugio dalla solitudine, riscatto dall’egoismo, sorgente di felicità.

Tutte le cose sono ormai, per Rembrandt, immerse in una luce che non è più di questo mondo (…).


Alla fine del “viaggio” rivelazione di una divina confidenza

Il figlio si inginocchia umilmente di fronte al vecchio padre dagli occhi spenti, che lascia errare le mani sulla sua schiena ricoperta di cenci. Dal Tobia dell’adolescenza – tema prediletto ripreso in numerosi disegni, incisioni, dipinti – sino a questo lavoro, le figure di vecchi ciechi non hanno cessato di ossessionare Rembrandt. Egli che ha tanto vissuto con gli occhi è invincibilmente attratto da queste “anime senza occhi”, come le chiamano i mistici del medioevo, presso le quali il cuore parla prima di vedere e la cui spiritualità sembra rifugiarsi e concentrarsi nelle mani. Rembrandt lascia allora salire in sé le tenebre e procede a tentoni nella notte come un cieco ispirato, per toccare al di là delle apparenze; e al termine della vita cerca le braccia del padre.

Il suo figliol prodigo è distrutto dal viaggio: le piante dei piedi contuse e ferite, i begli abiti ridotti a patetici stracci, brandelli su un corpo emaciato, la testa rasata come un penitente. Non riusciamo quasi a distinguere i lineamenti del viso: è il viso di ogni uomo. Frammento miserevole e fragile di umanità, riassorbita nella compassione infinita e accogliente. Padre e figlio si fondono in un’unica forma.


Simeone col bambino Gesù, 1669

Simeone con il bambino Gesù (1669). Il vecchio ha in braccio il bambino della promessa. Forse per la debolezza o la malattia del pittore, il colore non è steso col tratto vigoroso che caratterizza gli altri dipinti della vecchiaia ma con una delicatezza quasi di filigrana, come fosse applicato con una spugna o una garza. Il vecchio uomo compie la sua vita, la consegna, tenendo tra le braccia il bambino lo accoglie, lo dà, si dà in questo pezzo di luce. Le mani immense, il viso chiuso al mondo nella sua contemplazione interiore, dietro le palpebre abbassate il vecchio ha visto la Salvezza. Con lui, Rembrandt può dire: “Ora lascia Signore, che il tuo servo vada in pace…”. 

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