La fatica di capire. La grande storia e noi

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Una domanda che costantemente mi visita:
perché noi uomini comprendiamo sempre dopo, e sempre molto parzialmente,
quello che ci succede nella vita?

Perché il Signore ha dato alla nostra vita questa forma di una costante interrogazione, e incomprensione (o comprensione solo parziale, nello specchio, in enigma)?

Il Vangelo sembra tutto così: ma essi non capivano…

Capiremo la forma della vita solo guardandola alla fine

don Sergio Colombo, parlando della necessità del rito, suggerisce che Gesù, nell’ultima cena, ha voluto istituire il rito eucaristico proprio perché ai discepoli, che non capiscono, consegna la verità della propria vita mettendola nella loro bocca. Analogamente a una mamma che nutre il suo piccolo prima ancora che possa comprendere il mondo. Capirai dopo, quello che faccio, ora non lo capisci, lo capirai.

Tutti i Vangeli sono del resto una rilettura pasquale di ciò che è successo ai discepoli prima, stando vicino a Gesù, quando ancora non capivano (e così Emmaus e così tutta la Scrittura… Qualcuno scrive, insieme allo Spirito, per dire qualcosa che finalmente gli è sembrato di capire, parzialmente, interrogandosi: cos’è questo pane del deserto che tutte le mattine arriva dal cielo e mi nutre? Cos’è questo pane di una comunione che è una promessa, e un compimento, e mi fa vivere?).

Sembrerebbe appunto la forma della vita, che potremo comprendere solo guardandola dal fondo, alla fine.

Anche il Concilio fatichiamo a capirlo

Vengo al Concilio. È come se qualche amico più sapiente, interrogandosi, avesse capito un po’ meglio e un po’ più da vicino, qualcosa della vita e dell’amore, e provasse a dirlo agli altri amici, che però non capiscono, e forse lo faranno in pochi, dopo, parzialmente… Ma poi per quei “pochi” diventa una cosa preziosa, essenziale, un tesoro che vorranno custodire.

Ecco l’inizio di un breve testo di don Sergio, che parla di Yves Congar:

Lo sapete: tutto il mio ministero, ma posso dire la mia fede e il mio modo di essere cristiano, sono nati e sono sempre rimasti nell’aria e nell’orizzonte del Concilio. Ho avuto la fortuna di respirarne un po’ l’aria in diretta. Ne ho ripreso i testi per l’insegnamento. Ho partecipato al dibattito interminabile sulle diverse interpretazioni del Concilio e della sua attualità. Sono testimone di come sia difficile per molte persone e per le nostre comunità orientarsi nella mole dei testi che compongono gli Atti del Concilio e cogliere alcune delle sue grandi prospettive e la loro novità dentro la storia della Chiesa e del cristianesimo del ’900.

È un po’ più facile per chi, vivendo quell’evento e quel periodo, è stato accompagnato a comprenderne la portata da qualche maestro, da qualcuno che il Concilio lo ha preparato e reso possibile con un discernimento capace di vedere il movimento del vangelo dentro quel travagliato periodo storico. Un maestro così è stato per me, e per molti di noi, un domenicano francese la cui vita percorre tutto il ‘900 e le cui ricerche teologiche attorno alla missione della Chiesa sono entrate profondamente nel Concilio.

Il testo di don Sergio si conclude poi così:

Ho voluto indicare alcuni libri più abbordabili [di Congar] che hanno fatto data nella vita della Chiesa e nella coscienza di molti di noi. Omaggio a quella generazione di cristiani che hanno fatto il Concilio e sono scomparsi o stanno scomparendo; e hanno introdotto noi che eravamo ragazzi al Concilio e che avremmo tanta voglia di trasmetterne un po’ lo spirito alle generazioni venute dopo e che rischiano semplicemente di ignorarlo.

Alcuni preti vestono la talare e amano il latino

Ho letto da qualche parte: “Abbiamo sperato che tutta la Chiesa potesse salire lassù. E invece ci siamo accorti che, alla fine, molti, troppi hanno preferito ridiscendere…La Restaurazione è in atto”.

Ricordo anche un commento di don Giuliano Zanchi circa i numerosi nuovi sacerdoti nostalgici di una Chiesa forte, indifferenti a un Concilio ormai narcotizzato, che si rinchiudono intorno alle loro idee lasciando che il mondo cattivo e perduto se ne vada dove vuole (cioè alla malora, secondo loro) e si compattano aggrappandosi a presunte certezze, esibendole rivestite da un’estetica che rassicura gli occhi. Giuliano, spesso caustico, dice più o meno: le strategie neotradizionaliste sono congruenti all’estetica della società contemporanea, il prete che veste la talare e celebra in latino è contiguo agli adepti di Casa Pound…

Mi pare francamente un po’ troppo tranchant e ingeneroso verso chi, essendo disorientato, difetta semplicemente di riferimenti, di discernimento profondo e di compassionevole sapienza.

Credo di avere uno sguardo più pacificato, spero tuttavia non rassegnato.

Ho sempre pensato che la realtà e profondità della vita di ciascuno sia nascosta, segreta, silenziosa, e stia davanti al Signore: la verità della nostra vita la cerchiamo cioè solo stando di fronte a lui, e lui soltanto raccoglie questa verità, sconosciuta a noi stessi.

Viviamo interrogandoci, cercando di capire un po’ di più e un po’ meglio, sempre grazie agli altri, quanto ci succede, traducendo nella nostra quotidianità questo sforzo di comprensione, condividendolo con i fratelli, per quanto riusciamo, sempre imperfettamente.

Una testimonianza su Concilio e dintorni

Mio fratello doveva tenere tempo fa, al Qoelet, una piccola conversazione, non più realizzata, a proposito della cultura e del lavoro di insegnante (di filosofia e storia. Era un anniversario della fondazione de Le Piane).

A sua insaputa trascrivo l’ultima parte di quel suo intervento, che mi aveva sottoposto per un parere; mi è venuto in mente riguardo alla vita della nostra coscienza, ai nostri esiti e riuscita davanti al mondo, al “fallimento” del Concilio.

Pensando alla forma del mio lavoro, ricordo spesso un piccolo momento di un film dedicato alla vita di Thomas More, “Un uomo per tutte le stagioni”, di Fred Zinnemann. Thomas More è in quel momento Cancelliere del re, prima di entrare in contrasto con Enrico VIII, ed è tormentato da un giovane che vuole essere raccomandato per un posto a corte, che gli dia visibilità e prestigio. More si sottrae alla raccomandazione, e al giovane dice di avere in effetti un posto per lui, ma come insegnante. Il giovane è deluso, quasi offeso: “ma chi lo saprebbe?”. More gli risponde: “Lo saprebbero i tuoi studenti, lo saprebbe Dio, è un discreto pubblico”.

Ho sempre vissuto come un privilegio della mia vita tra gli altri quello del mio pubblico. Passo tre anni con delle persone, e tre anni sono tanti, soprattutto in un certo momento della vita, soprattutto parlando di certe cose, soprattutto nel rapporto con qualcuno. Ho sempre sentito quasi con orgoglio che la parola fosse con così pochi, e con quei pochi in realtà ancora con meno, e lì in quello spazio, per poco tempo, una mattina dopo l’altra, nel continuo cambiare di ognuno. Quell’invisibilità dello spirito, quel fatto che non lo sappiano altri. I tre anni passano, e ognuno è consegnato alla propria vita. Quello che rimane lo sa per sé ognuno, nella discrezione della propria memoria.

Chi insegna è spesso appesantito dall’impressione che tutto si perda: non vede rimanere quello che sperava e aspettava, e dunque tende a sentire che non rimane nulla. Ma il gusto che viene dalle parole, nella sua povertà, è davvero umano, e sta negli incontri che ci capitano, che hanno tutti un tempo assegnato. Le parole che ci scambiamo sbiadiscono, magari ci diventano estranee o ci appaiono irriconoscibili nella distanza della memoria. Questo però non deve dispiacerci troppo, né apparirci una specie di inganno; possiamo invece provare ad avere ugualmente ancora cura del significato che abbiamo incontrato (…). Per chi ha fede, è il modo in cui Dio ha pensato di dirsi nella storia.

 

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