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Festa di s. Alessandro. La città, la Chiesa, il futuro

Oggi è la festa di s. Alessandro, festa patronale della città di Bergamo. Con le caratteristiche consuete: festa di cerniera, quasi un atto di omaggio reciproco della città verso la Chiesa e della Chiesa verso la città

Questa armonia ha la sua storia, con momenti di tensione e di distensione, che segnano anche il sentire personale dei cittadini di questa città, qualche volta più laici che credenti, qualche volta più credenti che laici…

Nella Chiesa è in atto una concentrazione sull’essenziale

Io, credente, ho provato a chiedermi come potrà evolvere lo stato delle relazioni tra la città e la Chiesa. E, da credente, mi sembra scontato che la Chiesa che cambia fa cambiare anche i suoi rapporti con il mondo e la società.

Donde la domanda ovvia: come sarà la Chiesa del futuro e come saranno i suoi rapporti con la società in genere e con la città, questa città, in specie?

Invece di dotte disquisizioni teologiche ho giocato un po’ su qualcosa che mi tocca personalmente. Mi sono lasciato andare a qualche divagazione fuori tempo e fuori moda.

Un esempio stranamente eloquente: i canonici non fanno quasi nulla. Pregano

Sono canonico. Spesso mi chiedono: cosa fanno i canonici? Rispondo che siamo una comunità di preti legati alla cattedrale. Il dizionario Treccani recita: “I canonici secolari, secondo l’attuale ordinamento, sono sacerdoti che formano un collegio cui spetta celebrare le funzioni liturgiche più solenni della propria chiesa”. 

Dunque: il nostro compito è celebrare. Ma non tutto e sempre: dovremmo celebrare solo le funzioni liturgiche più solenni nella nostra chiesa, che è la cattedrale. In realtà, noi, qui a Bergamo, facciamo di più perché celebriamo tutti i giorni, perfino durante il mese di agosto. Nei mesi non estivi, da settembre a giugno, recitiamo insieme anche le lodi e l’ora media: un po’ di preghiera insieme.

Ma facciamo solo quello: poco più di una mezzoretta al giorno. In una mentalità dell’impegno, del fare, del donarsi senza riserve (ce lo hanno proclamato fin da quando eravamo ragazzi in seminario e ce lo hanno ripetuto fino allo sfinimento) dire, oggi, che siamo chiamati a fare quasi nulla, è come dichiararsi rei di alto tradimento. 

Puo capitare di dover fare solo questo: pregare

“Solo questo?”, mi chiedono, infatti, gli amici a cui ho spiegato chi sono i canonici. Per temperare il mio senso di alto tradimento aggiungo che qualche volta ci chiedono di fare altro, in cattedrale o altrove. E preciso, per chiudere l’argomento: siamo pensionati. In effetti, quelli che vivono qui, negli appartamenti attaccati alla cattedrale, vanno dal più “giovane” che ha “solo” 73 anni al più “attempato” che ne ha 91. E aggiungo anche che due di noi sono parroci. Siccome l’essere canonici non chiede praticamente nulla, uno può essere tranquillamente e canonico, che di fatto non fa niente, e parroco che, di solito, fa molto. 

Sintesi della situazione. Siamo, sulla carta, in otto. I due parroci hanno altro da fare e spesso non hanno il tempo da fare quel poco che gli viene chiesto come canonici. Uno, per motivi di salute, è da cinque anni che non si vede. Dovremmo essere dodici. Non si capisce se è il vescovo che non vuole nominare per riempire i posti vacanti o sono i candidati che non vogliono essere nominati. Risultato: quelli che “ci sono” abitualmente sono, in tutto, cinque. 

Alcune istituzioni della Chiesa stanno diventando sempre più “povere”

Io, di questo gruppo sparuto, sono il “presidente”. Ora, il peso di una presidenza dipende dal numero dei presieduti e da quello che fanno. Dunque, se il presidente dei canonici non ci fosse nessuno se ne accorgerebbe (e mi chiedo se qualcuno si accorgerebbe se non ci fossero neppure i canonici).

A che pro queste considerazioni su un gruppo che conta assai poco nella Chiesa di oggi, per di più in una festa in fondo così serena e rasserenate come la festa del “nostro patrono”? Lo faccio perché la situazione di alcune istituzioni ecclesiali – tra cui i canonici appunto – è quella di una progressiva irrilevanza che, forse, abbozza lo stato di irrilevanza della Chiesa nel suo insieme.

I cristiani del futuro continueranno a chiedersi che cosa vuol dire dare la vita

Ci sarebbero motivi più che sufficienti per deprimersi. Ma intendo rassicurare soprattutto me stesso: non mi deprimo per nulla. Anzi. Anzi: la mia situazione (e quella dei “quattro gatti” canonici: stavolta siamo addirittura cinque) è una situazione profetica. Con il passare del tempo, la Chiesa tutta sarà come siamo noi canonici oggi e il parroco sarà sempre più come il presidente dei canonici. I cristiani saranno pochissimi, il parroco darà alla sua comunità la cosa unica e necessaria: l’eucarestia e la preghiera. Siamo chiamati, in altre parole, ad essere testimoni fragili, testimoni di un Dio più fragile di noi: è crocifisso infatti. E non è un caso che il patrono di Bergamo è un martire, ucciso proprio perché cristiano.

La sorpresa che una “cosa” così grande venga da una istituzione così fragile

Poi continueranno, certo, i cristiani dei decenni futuri, ad annunciare la pasqua, ma avranno più motivi di quelli che abbiamo noi oggi, per dire che la pasqua non è una impresa degli uomini, ma un dono che viene dall’alto. E per chi, anche allora, ci crederà, sarà motivo di meraviglia vedere come una cosa così forte viene da un gruppo così fragile, così striminzito, più striminzito e più fratile dei preti, che – qualcuno forse anche allora lo ricorderà – in tempi lontani, vivevano all’ombra della cattedrale e si chiamavano, chissà perché, canonici. 

E chissà se si sentirà ancora la necessità di celebrare la festa di s. Alessandro. Forse no. La città potrà avere altri riferimenti e la Chiesa celebrerà certamente ancora la festa del suo martire e sentirà più forte l’esigenza di chiedersi che cosa vuol dire, in un mondo che sembra affascinato da tanti altri modelli, che cosa vuol dire dare la vita per la propria fede.

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