La sua storia è rimasta sepolta per 60 anni, una pagina di vero eroismo riscoperta solo nel 1999, ad opera di quattro studentesse quindicenni di una scuola superiore del Kansas. Alle quali il professore di storia aveva dato un articolo su “Gli altri Schindler” con il compito di approfondire la vicenda di Irena Sendler. Figura pressoché sconosciuta, anche se il suo nome era menzionato dal 1965 nell’elenco del museo Yad Vashem tra i “Giusti tra le Nazioni” e nel 1983 un albero era stato piantato nel giardino dello stesso museo in Israele, sempre con il suo nome.
Null’altro però si sapeva di questa persona straordinaria, che le ragazzine scoprirono con meraviglia essere ancora in vita, in una casa di riposo polacca: una vecchietta semplice e modesta, dal viso – un tempo sicuramente bello – dolce e paffuto, i lineamenti regolari, gli occhi svegli, il sorriso aperto.
Era nata, Irena, nel 1910 nella periferia operaia di Varsavia, in una famiglia cattolica polacca di orientamento politico socialista. Il padre, medico, morì di tifo quando lei aveva sette anni, avendo contratto la malattia mentre assisteva pazienti che gli altri suoi colleghi si erano rifiutati di curare per timore del contagio.
Molti di questi ammalati erano ebrei, così, dopo la sua morte, i responsabili della comunità ebraica di Varsavia si offrirono di pagare gli studi di Irena in segno di riconoscenza. E lei, cattolica, sperimentò fin dall’adolescenza una profonda vicinanza ed empatia con il mondo ebraico, tanto che all’università si oppose alla ghettizzazione degli studenti ebrei e come conseguenza venne sospesa per tre anni.
Terminati comunque gli studi, cominciò a lavorare come assistente sociale.
Allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, e già fin da quando i nazisti occuparono la Polonia, ancor prima della costruzione nel 1940 del Ghetto di Varsavia, Irena si adoperò in ogni modo per salvare gli Ebrei dalla persecuzione, procurando loro circa 3000 passaporti falsi e reclutando famiglie e istituti per ospitarne in incognito i bambini: le erano infatti ben chiare già da allora le terribili conseguenze delle politiche razziali della Germania di Hitler.
Come operatrice ufficiale del Dipartimento contro le malattie contagiose, Irena possedeva un lasciapassare per entrare nel Ghetto di Varsavia, costruito nel frattempo, e la sua libertà di muoversi dentro quelle mura le permetteva di convincere i genitori a affidarle i loro bambini, per farli uscire dalla prigionia del Ghetto e farli vivere presso istituti religiosi e famiglie amiche con una nuova identità. L’idea era di evitare almeno ai piccoli gli stenti del Ghetto e di riunirli poi alle loro famiglie nel futuro. Ma non era facile convincere questi genitori a separarsi dai figli. Anche per il fatto stesso che Irena fosse cattolica e che i bambini sarebbero stati ospitati in conventi, orfanatrofi o famiglie polacche cattoliche. Alla fine però i parenti si arresero, preoccupati dalle notizie sempre più drammatiche sulla loro sorte e dal peggioramento delle condizioni di vita nel Ghetto. Così, “ i veri eroi – ebbe a dire in seguito e più volte la stessa Irena – furono in realtà proprio quelle madri e quei padri che, nella disperazione, ebbero il coraggio di separarsi, pur con enorme dolore, dai loro figli.”
Irena entrava nel Ghetto con vari pretesti, portando sui vestiti una Stella di Davide come segno di solidarietà con il popolo ebraico, e anche per non richiamare l’attenzione su di sé. In genere si trattava di ispezioni per verificare eventuali sintomi di tifo: i tedeschi temevano infatti che un’epidemia di questo male avrebbe potuto diffondersi anche al di fuori.
Altre volte si spacciò per un tecnico di condutture idrauliche e fognature: entrata con un furgone, riuscì a portar fuori alcuni neonati nascosti nel fondo di una cassa per attrezzi, e alcuni bambini più grandi chiusi in un sacco di juta. Nel retro del furgone, un cane, addestrato ad abbaiare quando i soldati nazisti si avvicinavano, coprendo così il pianto dei bimbi.
Aiutata da un’organizzazione clandestina, in prevalenza cattolica, la ZEGOTA, di cui faceva parte con il nome di battaglia di “Jolanta”, la Sendler escogitò e mise in opera diversi altri metodi di evasione: alcuni ragazzini venivano nascosti dentro le ambulanze che uscivano dal Ghetto insieme a lei, che spesso li nascondeva in borsoni e valigie (non veniva perquisita a fondo, perché si sapeva che lavorava a contatto con malattie contagiose), oppure si utilizzavano cunicoli segreti o le possibilità che offriva il grande Palazzo di Giustizia, situato come un’enclave proprio nel mezzo del Ghetto stesso.
Così, furono fatti scappare circa 1000 bimbi, che andarono ad aggiungersi ai 1500 cui era stata cambiata l’identità ancor prima della costruzione del Ghetto.
Già, perché era necessario fornire loro nuove identità, nasconderne i veri nomi ebrei, sostituendoli con nomi cristiani, anche per evitare ripercussioni sui parenti, qualora fossero stati scoperti.
I bambini venivano portati in campagna, affidati a famiglie cristiane, oppure ospitati in alcuni conventi cattolici, o lasciati direttamente presso sacerdoti che li nascondevano nelle case canoniche.
Irena stessa ricordava: “Ho mandato la maggior parte dei bambini in strutture religiose. Sapevo di poterci contare.”
Lei intanto scriveva, aggiornava e manteneva le liste dei nomi veri e di quelli falsi, per poterle poi utilizzare per la riunione dei bambini con le loro famiglie, a guerra conclusa.
Elenchi nascosti dentro barattoli, bottiglie e vasetti vuoti di marmellata, sotterrati sotto un albero di mele, in giardino.
La vita, presente e futura, di quei bambini, dunque, stava tutta racchiusa in un barattolo!
Il 20 ottobre 1943 Irena Sendler venne arrestata dalla Gestapo, ma per fortuna la portata dei suoi “crimini” fu scoperta soltanto in parte dai suoi aguzzini.
Fu torturata e le fratturarono braccia e gambe – tanto che rimase claudicante per tutto il resto della vita e bisognosa del bastone per camminare -, ma non rivelò il suo segreto, non fece il nome dei suoi collaboratori, né parlò del nascondiglio degli elenchi dei bambini, nonostante la sua abitazione fosse stata perquisita a fondo: le liste dei bimbi, nascoste nei vasetti interrati, rimasero sicure.
Venne infine condannata a morte, ma l’organizzazione ZEGOTA, a sua insaputa, riuscì a corrompere con soldi l’ufficiale che doveva ucciderla e che la aiutò a fuggire.
Il suo nome venne comunque registrato insieme con quello dei giustiziati: lei stessa lesse la notizia della sua morte nei volantini affissi a Varsavia! Per i mesi rimanenti della guerra, visse nascosta, in clandestinità, continuando però a organizzare i tentativi di salvataggio di bambini ebrei.
Alla fine del conflitto e dell’occupazione tedesca, i nomi dei bimbi vennero consegnati a un comitato ebraico, che riuscì a rintracciarne circa 2000, ma pochissimi poterono ritrovare i parenti e ricongiungersi alle loro famiglie: la vita della maggior parte dei genitori era finita a Treblinka o in altri lager. Dei 450000 ebrei rinchiusi nel Ghetto soltanto un migliaio, infatti, sopravvisse all’Olocausto: cifre che fanno rabbrividire e che non necessitano di commento…
E Irena? Umile, modesta, non rese pubblica la sua storia, e continuò la sua vita con il rammarico di non aver potuto fare di più, un rimpianto che – diceva – “non mi lascia mai”.
I suoi guai, anche dopo la guerra, non erano tuttavia finiti e le minacce nei suoi confronti continuarono anche da parte del regime comunista per i suoi contatti con il Governo in esilio della Polonia e l’Armia Krajowa. Inoltre era osteggiata e chiamata “fascista”come collaboratrice di ebrei. Dal 1948 al 1968 Irena è stata comunque iscritta al Partito Comunista polacco, che ha abbandonato in seguito alle campagne antiebraiche del marzo 1968.
Riconosciuta nel 1965 come una dei “Giusti tra le Nazioni”, soltanto in questa occasione il Partito le permise di viaggiare all’estero, per ricevere il riconoscimento in Israele.
Dopo quella data, più nulla: Irena Sendler sembrava dimenticata dall’opinione pubblica, la sua vita eroica consegnata all’oblio. Fino alla riscoperta nel 1999.
In quell’anno, le ragazzine americane scrissero infatti per il loro progetto di storia un testo teatrale dal titolo “La vita in un vasetto”, in cui la figura di Irena aveva la parte principale. E dopo un anno di contatti epistolari, poterono incontrarla a Varsavia. Lei stessa raccontò ulteriori particolari della sua vita e contribuì a far conoscere alcuni dei bambini salvati, ormai adulti e uniti in un’organizzazione.
Da quel momento la sua storia divenne nota al mondo intero: la CNN e la AP fornirono reportages e notizie. Irena ricevette, oltre ad altre nomine e premi, anche l’Aquila Bianca, la maggiore onorificenza polacca. E il papa Giovanni Paolo II le scrisse una lettera di ringraziamento personale.
Lei si diceva onorata di ricevere tutti questi attestati di stima, che subito divideva con tutte quelle persone che ne avevano uguale diritto, ma che non erano sopravvissute: “Senza di loro, non avrei potuto fare nulla”. Anche perché, per ogni bambino da salvare, occorreva la collaborazione di circa 10 persone, che mettevano perciò a repentaglio la loro stessa vita, per quella di ogni singolo bambino!
Nel 2007 Irena è stata proclamata eroe nazionale dal Senato Polacco: invitata a ricevere l’onorificenza, non è stata in grado, a 97 anni suonati, di lasciare la casa di riposo in cui risiedeva, ma ha mandato una sua dichiarazione per mezzo di quella che era stata la più piccola dei “suoi” bambini salvati, Elzbieta Fikowska: “Ogni bambino salvato con il mio aiuto è la giustificazione della mia esistenza su questa terra, e non un titolo di gloria”.
Sempre nel 2007, aveva ottenuto una nomination per il Nobel per la Pace, che però non le è stato assegnato perché una regola – peraltro molto discutibile – per l’assegnazione richiede che si sia effettuata un’ attività meritoria nei due anni precedenti la richiesta, mentre nel suo caso le azioni meritorie risalivano a molto tempo prima.
L’anno successivo, nel 2008, Irena Sendler si è spenta serenamente, lasciando una grande testimonianza di coraggio, di amore e di rispetto per tutti, senza distinzione di razza, religione e fede.
Diceva, con parole semplici: ”Dobbiamo lottare per ciò che è buono. Il buono deve prevalere, deve prevalere e io ci credo. Finché vivrò, finché avrò forza, professerò che la cosa più importante è la bontà.”
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Rocchetti