Di lei si sa ben poco. Alcuni cenni biografici, il diario e le lettere da lei scritte negli ultimi anni della sua breve vita (in tutto, i suoi scritti coprono un arco di tempo brevissimo: 9 marzo 1941 – 7 settembre 1943) e che offrono la straordinaria possibilità di riflettere sul rapporto tra estremo e quotidiano.
Etty è una giovane donna la cui esistenza si è smisuratamente estesa dalla piccola scrivania accanto alla finestra della sua stanza, che dava sulla piazza del Rijksmuseum, ad Amsterdam, dove ogni giorno cercava per sé “almeno un paio di parole“, come altri cercano una casa, un rifugio, fin dentro le pieghe della più grande tragedia storica del Novecento: “Se dico che stanotte sono stata all’inferno, che cosa potete capirne voi?” scrive da dentro il campo di transito di Westerbork, dove ogni lunedì arrivava un treno vuoto che ripartiva il mattino seguente carico di donne, uomini, vecchi, bambini, destinati allo sterminio. E tuttavia, in quel lungo tragitto dalla sua scrivania (“il più bel posto di questa terra“) alla storia, Etty non solo non smarrisce se stessa, ma non smarrisce la libertà di continuare ad amare gli esseri umani e di continuare ad assaporare la bellezza del mondo. Dentro le pieghe della vita quotidiana e con l’acuta consapevolezza dell’inevitabile destino a cui lei e il suo popolo sono destinati, mantiene intatta
la coscienza che, in ultima istanza, non ci possono togliere nulla. Che esisterà pur sempre un pezzetto di cielo da poter guardare, e abbastanza spazio dentro ciascuno di noi per poter congiungere le mani in una preghiera.
Etty rende continuamente evidente la ricchezza delle potenzialità di una vita umana. Anche nelle situazioni più terribili, e di maggiore costrizione, si può trovare la forza se non di capovolgere il dato, almeno però di rovesciarne il senso:
Ho il dovere di vivere nel modo migliore, e con la massima convinzione, sino all’ultimo respiro. Allora chi verrà dopo di me non dovrà più cominciare tutto da capo e con fatica.
È questo il nucleo semplice e radicale che definisce l’esperienza di resistenza di Etty. La trasformazione di sé come momento indispensabile e fondamentale della trasformazione del mondo. Etty sa amare la vita, e trovarvi bellezza, anche nelle situazioni più intollerabili non perché sia un’anima bella, che non sa vedere l’orrore del mondo, ma perché sa che
tutto fa parte di questo mondo: una poesia di Rilke come un ragazzo che cade dall’aeroplano.
Non a caso, molti l’hanno associata a Dietrich Bonhoeffer, che nel carcere di Tegel, a Berlino, poco tempo prima di venire giustiziato scrive: “Meravigliosamente custoditi, da forze che vegliano per il nostro bene, attendiamo senza timore l’avvenire. Dio è con noi sera e mattina, e lo sarà fino all’ultimo giorno”.
Tutto questo comporta farsi carico del presente, radicarsi nel presente, senza immaginare vie di fuga impossibili. Significa non fuggire la realtà e non ritagliarsi un mondo a propria misura. Perché Etty è convinta che ciò che è umano, profondamente umano, non può essere soffocato dal male.
“Se sapessimo capire il tempo presente, lo impareremmo da lui a vivere come un giglio del campo“. Ridotti all’essenziale. Ma non privati della speranza. “Un barlume di eternità filtra sempre più nelle mie più piccole azioni e percezioni quotidiane. Io non sono sola nella mia stanchezza, malattia, tristezza o paura, ma sono insieme con milioni di persone, di tanti secoli: anche questo fa parte della vita che è pur bella e ricca di significato nella sua assurdità, se vi si fa posto per tutto e se la si sente come un’unità indivisibile. Così, in un modo o nell’altro, la vita diventa un insieme compiuto; ma si fa veramente assurda non appena se ne accetta o rifiuta una parte a piacere, proprio perchè essa perde allora la sua globalità e diventa tutta quanta arbitraria.
Me lo dicevo mentre nei mesi scorsi attraversavo di nuovo la grande fabbrica dello sterminio che è Birkenau: questa è la grande lezione di Etty, restituirci tutta la responsabilità del nostro “esserci”.
Si ritroverà “improvvisamente” in ginocchio.
Ieri sera, subito prima di andare a letto, mi sono trovata improvvisamente in ginocchio nel mezzo di questa grande stanza, tra le sedie di acciaio sulla stuoia chiara. Un gesto spontaneo: spinta a terra da qualcosa che era più forte di me. Tempo fa mi ero detta: mi esercito nell’inginocchiarmi. Esitavo ancora troppo davanti a questo gesto che è così intimo come i gesti dell’amore, di cui pure non si può parlare se non si è poeti.
Etty cambia lo sguardo con cui osserva la vita affaticata di tutti i giorni.
Ti prometto una cosa, mio Dio, soltanto una piccola cosa: cercherò di non appesantire l’oggi con i pesi delle mie preoccupazioni per il domani – ma anche questo richiede una certa esperienza. Ogni giorno ha già la sua parte. Cercherò di aiutarti affinché tu non venga distrutto dentro di me, ma a priori non posso promettere nulla.
E decide di fare la sua parte, di assumere il peso della sua responsabilità di fronte al bene da fare e al male da fuggire. Vuole essere “il cuore pensante” della baracca” con una consapevolezza che non abbandonerà mai: “Non credo più che si possa migliorare qualcosa nel mondo esterno senza aver prima fatto la nostra parte dentro di noi”.
Senza saperlo – ma intuendolo chiaramente. farà propria la convinzione di Emmauel Mounier, cioè che “Dio passa attraverso le ferite” e dunque va custodito e difeso.
Una cosa, però, diventa sempre più evidente per me, e cioè che tu non puoi aiutare noi, ma che siamo noi a dover aiutare te, e in questo modo aiutiamo noi stessi. L’unica cosa che possiamo salvare di questi tempi, e anche l’unica che veramente conti, è un piccolo pezzo di te in noi stessi, mio Dio.
Dall’orrore del campo di transito comprende che Dio lo si difende amando e custodendo la fragilità degli altri.
Forse possiamo anche contribuire a disseppellirti dai cuori devastati di altri uomini. Sì, mio Dio, sembra che tu non possa far molto per modificare le circostanze attuali, ma anch’esse fanno parte di questa vita. Io non chiamo in causa la tua responsabilità, più tardi sarai tu a dichiarare responsabili noi. E quasi a ogni battito del mio cuore, cresce la mia certezza: tu non puoi aiutarci, ma tocca a noi aiutare te, difendere fino all’ultimo la tua casa in noi.
Etty non è ingenua e sa leggere le reazioni sconsiderate di tanti di fronte al dolore imperante:
Esistono persone che all’ultimo momento si preoccupano di mettere in salvo aspirapolveri, forchette e cucchiai d’argento – invece di salvare te, mio Dio. E altre persone, che sono ormai ridotte a semplici ricettacoli di innumerevoli paure e amarezze, vogliono a tutti i costi salvare il proprio corpo. Dicono: me non mi prenderanno. Dimenticano che non si può essere nelle grinfie di nessuno se si è nelle tue braccia.
Come nel salmo 131 riletto magnificamente da Giusy Quarenghi:
Non ho alzato lo sguardo da prepotente. Non ho creduto di essere chissà chi conosco i miei limiti, li ho accettati. E il mio cuore è in pace come un piccolo in braccio alla mamma. Sto bene nella mia pelle come un fiume nel suo letto. Sto bene in braccio a te e la mia anima è serena e quieta come un piccolo appena allattato. Non dimenticherò che mi hai tenuto tra le braccia che mi hai portato in braccio.