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Lizzola/Ritorniamo tutti figli

“...Ci sono tempi, nella vita delle persone, che attendono la cura, e tempi di persone che attendono alla cura"

Ritorniamo tutti figli,…
figli al fine ci ritroviamo”
.

Don Salvo ha occhi lucidi, e una lentezza della parola, quasi una incertezza che ricorda l’ictus dell’anno passato. Ma che ricorda anche l’incespicare dei piccoli e delle piccole d’uomo in cerca delle parole che, dicendo le cose che si sono incontrate, risuonino di esse.

Provare a nascere, da figli

Gli occhi incantati nell’impossibilità di ogni movimento e quasi d’ogni comunicazione, han colto la danza di tanti attorno, sopra, nel sollecito abbraccio e nella cura amorevole. Subito, appena dopo la paralisi, dopo la caduta. “Del tutto nelle loro mani,… erano buone e attente”:

E la ripresa aveva attraversato quel silenzio interiore difficile, come quello di un obbligato ripiegamento e raccoglimento; nella forzata accettazione di movimenti verso il proprio corpo, e nell’incapacità della risposta. A lungo nell’inadeguatezza di ogni risposta. E di ogni attivazione, di ogni domanda.

Solo domanda muta. Silenzio dentro, e recettività; solo passività davanti al farsi presso di parole e gesti dedicati. Come membrana vitale, palmo della mano a sostenere in fragilità estrema, tra vita e morte. Nuova nascita in, imprevista, nuova innocenza. Incapacità di nuocere ancora dopo averlo appreso divenendo donne e uomini.

Ho visto come per la prima volta, donne e uomini conosciuti da sempre, a me affidati da anni… li vedevo, ora li vedevo come per la prima volta. Prima li consolavo… ora, finalmente, li vedevo”.

Imparare ad essere affidabili, palmo della mano dopo aver ancora una volta dovuto provare a nascere, da figli. Da vulnerabili e fragili figli e figlie: nella fame di tutto, pura passività. Come nascendo, come amando, come morendo. In fraternità.

Senza rinascita niente è del tutto vivo

Avviati verso “quell’inizio che è dopo ogni consumo” come annota Maria Zambrano apparendo dall’esilio. E vengono alla mente le parole di Ugo da San Vittore che nel XII secolo scrive:

L’uomo che trova dolce la sua patria non è che un tenero principiante, colui per il quale ogni terra è come la propria è già uomo forte; ma solo perfetto è colui per il quale il mondo non è che un paese straniero.

E la citazione è ripresa dal bulgaro Tzvetan Todorov che vive in Francia e l’ha presa dal palestinese Edward Saïd che lavora negli U.S.A., che l’aveva trovata in Erich Auberbach, tedesco esule in Turchia.

Senza rinascita niente è del tutto vivo: ma la via di attraversamento passa dal corpo nudo, dal corpo deserto. Corpo figlio, chiamato a maternità e paternità belle e difficili, spesso rifuggite nell’autocelebrazione  e nella tentazione delirante di farsi figli di se stessi, da autogenerarsi. Destinati ma soprattutto attesi all’affidabilità e alla cura responsabile anche verso le nostre madri e i nostri padri, che il corpo infragilito ci riconsegna figli. E poi noi, magari presto noi sospesi, ma soprattutto destinati a tornare figli dei nostri figli e delle nostre figlie.

Saprà una convivenza, un’umanità di generazioni diverse, così vincolate e vicine, dipendenti e consegnate, ritessere vita e dignità, cura e legame dalla vulnerabilità, dalla filialità e dall’esilio? Oppure s’aprirà una grande, nuova soglia evolutiva segnata da tragiche sacrificalità?

La forza corrosiva della morte e i movimenti della vita

Sentiamo nella carne l’ingiustizia dal lato freddo del cinismo, del calcolo lucido del dolore arrecato. O dell’avvelenamento, dal paradossale sapore dolce dell’istinto di morte, di negazione e distruzione. Sentiamo nello spirito la desolazione riarsa che ha consumato ogni ascolto di un fremito di vita, ogni speranza di un soffio di tenerezza. La forza corrosiva continua della morte sulla vita, del nulla sull’amore.

Quale natività serbare mentre pare gioco, o caso stare al mondo? Quando la coscienza è ridotta a lichene che colora le dure pietre dell’essere, della ragione, della memoria indifferente, della forza? “Sono qui” è un morso: sola presenza, scossa, quasi nulla nella propria impotenza per molte e per molti.

Serve un presente adeguato a ricevere il sempre poter nascere, suggerisce Maria. Adeguato a sentire l’alito fragilissimo e tiepido dell’attesa. Respiro di piccoli, figli.

Nell’incontro con donne e uomini dalla delicata capacità di attenzione, perché sono stati presi dall’esperienza dello  scavo, del corpo. Che sentono in loro e tra loro “tempi diversi che bussano alla porta”, per usare le parole regalate da Nora Habed. A manifestare l’attesa al cuore dei giorni e delle relazioni.

Capacità di attenzione, nel continuo scendere tra gli uomini e nelle cose, inchinati e piegati. Trascendenza dall’alto al basso: che è quella di Francesco che vive di creazione, e di riconoscimento d’esser creato. Presi in quel movimento divino di decreazione che gli zaddik delle comunità chassidiche serbano nel canto e nell’ironia. Ritrazione per amore, nella pratica attenta dei movimenti della vita. Della natività.

I giorni possono essere giri di danza della nudità, spoliazione continua, apprendimento del lasciare: avviati anche dalla pressione della forza, o dalla necessità, come è nel profugo e  nel disperso. Nude figure di speranza.

Fronteggiamento dell’esperienza del corpo e dello scavo. Il corpo è ciò che più fatica e si oppone all’affidamento e all’esposizione col suo bisogno, con le sue pulsioni, con la evidenza elementare  e trascinante del suo desiderio. Ed è paradossale la cura della vita, allora: a volte delicata, a volte freddo possesso. Nel proprio corpo bello e mortale, anzitutto, è un difficile guadagno quello del sentire  che nella cura della vita è importante ciò che si diventa più che l’esito.

Dove nascita e morte si toccano

Sentirsi perduti, sulle soglie della vita o sprofondati nel movimento dello svuotamento è il movimento sul limite dove nascita  e morte si toccano. Quando un uomo ha finito allora ricomincia e quando sarà consumato allora spererà. Si apprende una nuova maniera di conoscere nella nudità, un conoscere in cui si guarda e insieme ci si sente guardati. In cui è come se le cose ricominciassero, e le parole e i pensieri si facessero come ciotole. Non nasciamo una sola volta: nuovi inizi si aprono nelle crepe, negli spazi tra noi, o nei vuoti della vita.

Vi è un inizio che è dopo ogni consumo: consumo d’un pensiero che sospeso e incerto si fa concavo, e di un gesto che si avvicina pur sapendo che non riuscirà a compiersi, e resterà sconfitto. Sarà solo fedeltà.

Un pensiero consumato, dalla prova dell’indicibile e dalla realtà dell’impensabile; consumato dal male e dall’ottusità. Un pensiero concavo, non esaurito e capace delle piegature a cui lo costringono la pressione delle cose o l’incredibile fragilità. Chiedendogli conto: il dovere del sapere. E chiedendogli fedeltà, nell’incanto della bellezza. Una ciotola.

Un’attesa, anzi più attese, come aliti fragili e tiepidi provano a farsi sentire. Sono come “tempi diversi che bussano alla porta”.

Ci sono tempi, nella vita delle persone, che attendono la cura, e tempi di persone che attendono alla cura: tempi, gli uni e gli altri, concentrati su un presente carico di fragilità e, insieme, di vita.  A volte denso presente, pesante e ripiegato, difficile da riaprire, col peso della dipendenza, e della solitudine. Oppure tempo presente nel quale viene colta ed ascoltata l’attesa di rispetto, di attenzione a una dignità umana, tanto più da riconoscere quanto più compromessa e infragilita. Questo presente che pare rattrappito diviene luogo di incontro, luogo di delicati progetti nei quali saperi e vissuti è come se si curvassero sulla vita: quella nascente, quella ferita, quella morente.

Perché chi è più debole non resti solo.

Ci sono tempi che attendono novità, futuro nelle scelte della vita che cresce. E nella tensione a dovere e volere lasciare, e a volere e dovere provarsi in nuova autonomia e in nuove relazioni. Spesso sono passaggi al futuro che si vivono nell’angoscia sottile, temendo di non farcela, di non trovare appoggi, di non godere di fiducia.

Le attese dei bambini e degli adolescenti

I bambini, gli adolescenti hanno bisogno di sentire su di sé un’attesa al gioco delle loro novità, delle loro sensibilità ed energie, dei loro pensieri.

Essere chiamati in responsabilità, essere ascoltati, essere di qualcuno. Altrimenti la sospensione sul futuro può non essere sostenibile. E questo vale per tante donne e uomini che devono ricominciare dopo una frattura nella vita e nelle relazioni.

Perché chi è sospeso non resti solo.

Ci sono tempi della consegna, e del congedo. In essi le donne e gli uomini spesso più che il calcolo del raccolto cercano segni di una buona semina (delle speranze, delle fatiche, dell’attesa di giustizia e di serenità, …). Vorrebbero sentire l’ascolto, e un buon uso della memoria: sentono il morso della disattenzione, della dimenticanza. Magari ben assistita, in spazi invisibili o di ricovero nei quali è rara l’attesa di un racconto, di una buona conservazione delle speranze, di una consegna.

Perché chi chiude una parabola non sia lasciato solo.

L’attesa è al cuore dei legami tra donne e uomini: è il respiro del legame e  la valorizzazione del nome d’ognuno. È portare il limite e la vulnerabilità, e possibile rinascita.

Non c’è che legame sociale arido e fondato sulla forza e l’autoaffermazione senza attese, senza reciproche attese tra le donne e gli uomini, tra le generazioni.

Resta una convivenza fatta solo di rapporti di forza e di scambi tra soggetti dal diritto acquisito, preoccupati di difendersi, di affermarsi, di tenere a distanza.

Senza attese resta la solitudine di donne e uomini che dimenticano di essere anzitutto figli e figlie.

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