L’articolo pubblicato la scorsa settimana ha suscitato molto dibattito e in tanti mi hanno scritto. In particolare un amico mi manda un messaggio che vale la pena riportare per intero.
Dentro ogni appartenenza ed istituzione sempre è esistito il dissonante, il divergente. Eppure, regnante l’impero cristiano, le crisi potevano essere solo personali. Oggi, però, non vi sono crisi personali: oggi l’impianto codificato collassa senza che la nostra crisi personale vi possa in alcun modo contribuire.
Il sistema collassa a prescindere dalle nostre crisi: collassa per tutti, buoni e cattivi, giusti ed ingiusti, coscienti ed incoscienti. Forse una sfumatura quindi sul tuo stimolante articolo; non siamo come all’inizio del cristianesimo ma come alla fine dell’impero. Siamo su questo lato del limen/limes: non dentro una rassicurante possibile nuova introduzione, ma dentro una disarmata attesa priva di aspettative. Non su sentieri da ripercorrere ma sul limitare di precipizi per cui non ci è dato più di procedere. Oltre una terra promessa che non abiteremo e che non ci sarà dato neppure di intravedere.
Siamo il vecchio che muore e non il nuovo che nascerà distante da noi. Eppure tutto questo paradossalmente mi affranca e mi rinfranca. Come fu per Virgilio, mi restituisce speranza di una nuova età dell’oro. Ed è dentro questa attesa cieca ed in- sensata che oggi purifico la mia fede ed incredibilmente mi sento avvolto e trovo pace.
In diversi mi hanno chiesto quali sono oggi le responsabilità e i compiti dei laici dentro un tempo come questo. La questione è complessa perché pesante è il carico della storia che abbiamo alle spalle.
“Vi sono due specie di Cristiani. Vi sono coloro che attendono alla liturgia e alla preghiera e sono dediti alla contemplazione: ad essi si addice star lontano dalla confusione delle cose temporali. Questi sono i chierici. Klêros infatti vuol dire “parte scelta” (…). C’è un’altra specie di cristiani: i laici. Laos infatti vuol dire “popolo”. Questi possono possedere beni temporali, possono sposarsi, coltivare la terra, occuparsi della giustizia civile, fare offerte e pagare le decime: e così potranno salvarsi, se faranno il bene ed eviteranno i vizi».
Così il Decreto di Graziano, una raccolta giuridica della chiesa medievale. Una prospettiva “duale” che, nella Chiesa, è durata a lungo. Ancora nel 1906 nell’enciclica Vehementer nos stava scritto: «La Chiesa è per sua natura una società ineguale, cioè formata da due categorie di persone: i Pastori e il Gregge […]. E queste categorie sono così nettamente distinte tra loro […] che la moltitudine non ha altro dovere che lasciarsi guidare e di seguire come un docile gregge».
Il peso innegabile di questa storia ha fatto in modo che ogni volta si dica “Chiesa” i più pensino al papa, ai vescovi, al parroco. Nel pensiero comune la Chiesa si identifica con il clero.
E i laici? Ne fanno parte? Si e no. Si preferisce pensare ad essi come “fedeli”, non un soggetto nella Chiesa, ma piuttosto l’oggetto delle cure del clero: amorevoli, certo, ma tali da mantenere il laico in una perenne condizione infantile.
Eppure, anche sotto questo aspetto, il Concilio Vaticano II ha rappresentano qualcosa di nuovo. Certo, occorre sfatare il luogo comune per cui ancora oggi ci si riferisce al Vaticano II come al “Concilio dei laici”. Si tratta di una suggestione assolutamente infondata, in quanto dai testi promulgati non emerge un disegno compiuto e organico sui laici sotto il profilo dottrinale e pastorale, né del resto i Padri conciliari si prefissero un tale obiettivo. Semmai è inevitabile che il ricorso alle categorie di “popolo di Dio” e di “comunione” spingessero a privilegiare una visione partecipata – in virtù del battesimo – del corpo ecclesiale. Resta quindi indubbio che la questione dei laici stia al centro delle sfide pastorali che si trovano ad affrontare le nostre comunità parrocchiali.
La loro innegabile valorizzazione è avvenuta soprattutto nei termini della loro attiva partecipazione al ministero della Chiesa in qualità di catechisti, di animatori liturgici, di operatori nel campo dell’assistenza. Il rischio è che questo loro impegno dentro la Chiesa – che è comunque indispensabile ed esige anzi un lavoro formativo ancora più preciso – sia visto ancora prevalentemente in termini di collaborazione e di supplenza all’azione del prete. Questa prospettiva favorisce e perpetua un nuovo clericalismo e non permette di costruire la parrocchia come una comunità di battezzati, di cristiani.
Lo vedo spesso girando per la diocesi. Quanti laici – donne e uomini – vivono con generosità il loro servizio alla comunità cristiana! Ma quanto poco sono valorizzati per ciò che sono veramente. Eppure – e non sono solo i numeri oramai a picco delle vocazioni sacerdotali – sempre più mi convinco che il Vangelo sarà comunicato quanto più sarà narrato da laici adulti nei confronti di altri laici adulti.
E’ evidente che il parroco resta il primo responsabile dell’annuncio del vangelo nella comunità, ma è impensabile che ne sia l’unico o il principale. Egli ha necessità di adulti, singoli e in coppia, che siano aiutati ad animare altri adulti. Va rafforzata dunque la scelta di una Chiesa ministeriale animata dalla fiducia nei confronti dei ministeri laicali. Solo cosi si può passare da una pastorale di conservazione ad una pastorale capace di parlare oltre il perimetro, spesso ben recintato, della comunità ecclesiale.
Come sostiene l’amico Enzo Biemmi:
E’ difficile pensare che persone formate in una cultura ecclesiale/ecclesiastica, nel bene e nel male segnate da un linguaggio da iniziati (il “linguaggio della tribù”), siano in grado di raggiungere gli uomini e le donne nel cuore della loro profanità.
Un laico credente può farlo. Questo rende più urgente il compito di formare i laici chiamati ad annunciare il Vangelo. Dentro un nuovo che nascerà distante da noi. Ma che bisogna immaginare e preparare.