Intervista al card. Pizzaballa. La devastazione della guerra

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Intervista al card. Pizzaballa. La devastazione della guerra

Il cardinal Pizzaballa durante la sua visita alla striscia di Gaza

Da laico nella città – Rubrica a cura di Daniele Rocchetti
La notte di Natale il cardinal Pierbattista Pizzaballa celebrerà come solito a Betlemme. E nella Chiesa di Santa Caterina, attigua alla Basilica della Natività, leggerà il brano evangelico di Luca della nascita di Gesù. Parole che risuonano con forza in una terra segnata pesantemente dall’odio e da un conflitto che pare non avere termine. Nei giorni scorsi, ho potuto dialogare a lungo con il Patriarca Pierbattista. Questa è la trascrizione
Ancora un Natale di guerra: sono passati 430 giorni dal 7 ottobre dello scorso anno e da ciò che, dopo di allora, è accaduto. Come leggi la situazione attuale?

Dal punto di vista militare c’è un allentamento della pressione. E’ finita la guerra nel Libano, gli intensi bombardamenti che hanno raso al suolo la striscia di Gaza non ci sono più e minori sono anche i combattimenti. Si parla di un possibile cessate il fuoco, di una tregua. Un minimo accordo dunque è molto vicino anche se da troppo tempo si ripete che è “molto vicino”. Vedremo… Resta il fatto che il picco della guerra è dietro di noi. La fine della guerra però non è la fine del conflitto.

Questa guerra, al di là della questione militare che ha comunque distrutto quasi intero la Striscia di Gaza e lasciato una situazione molto grave nella West Bank, ha aperto ferite profonde nelle relazioni, nel senso di fiducia di entrambe le popolazioni. E’ molto difficile parlare di pace e di speranza dopo più di 400 giorni dove tutto era sotto il segno dell’odio, della divisione, del disprezzo e del rifiuto dell’altro. Insieme alla tantissima violenza che abbiamo visto, tutto questo ha lasciato un segno molto forte che richiederà molto molto tempo per essere guarito. La situazione dal punto di vista pratico è ancora troppo fragile, con centinaia e migliaia di famiglie – soprattutto nella West Bank – senza lavoro, sia perché non ci sono pellegrinaggi sia perché il pendolarismo verso Israele è interrotto. Senza dimenticare i combattimenti nella West Bank tra coloni e palestinesi, soprattutto nella parte nord, a Nablus e Jenin. Questo ha creato un senso di tensione che si aggiunge alla fatica quotidiana. E’ un momento davvero molto difficile.

Ci stai dicendo che la fine militare, inevitabilmente sancita a breve, non è la fine del conflitto e nel frattempo sono scorsi fiumi di odio, di rabbia, di parole segnato dal disprezzo, dalla negazione dell’altro. Ma è possibile immaginare vie di pace in un contesto così complesso? E quali?

Parlare di pace finche c’è un conflitto in corso non funziona molto. La pace ha bisogno di condizioni e di un contesto ed entrambi in questo momento non ci sono. Bisogna però prepararli. La pace bisogna pensarla e impegnarsi per volerla. Bisogna poi fare un’analisi del perché si è arrivato a tanto, dove siamo stati mancanti. Tutti: cristiani, ebrei e mussulmani. E cominciare da qui. Serve cominciare dal basso. Finora tutti gli incontri erano in gran parte gestiti da elite, senza le comunità. Serve invece lavorare di più con esse, anche se è più complicato. Ma è sempre più necessario.

Uno dei motivi di questo odio stava anche nel fatto che le comunità non erano preparate. A gestire i rapporti erano spesso i soliti gruppi che per fortuna ci sono ma da soli non bastano ad aprire vie di pace durature e convincenti. Bisogna smettere di porre la pace come prospettiva immediata. La pace, ripeto, ha bisogno di condizioni. Una di queste è la fiducia ma pure il linguaggio è fondamentale. Che significa essere rispettosi dell’altro perché se tu deumanizzi l’altro nel linguaggio arrivi, a poco a poco, a giustificare la violenza nei suoi confronti. Serve lavorare su questo in contesti piccoli che poi, poco alla volta, possono anche crescere. Contesti piccoli perché la fiducia ha bisogno di relazioni umane, di persone che si conoscono e imparano a fidarsi l’uno dell’altro.

E’ necessaria anche una nuova leadership, da una parte come dall’altra, capace di intravedere nuove prospettive. Invece di personaggi vecchi abbiamo bisogno di nuovi volti che abbiano nuove visioni. I tempi saranno inevitabilmente lunghi ma già oggi ci sono le persone sulle quali si può lavorare in questa direzione. 

Serve dunque il coraggio della pace, anche per le comunità religiose presenti in Terra Santa…

Certamente. Dico sempre che non bisogna mettere sullo stesso piano fedi e religioni. Le religioni sono la forma istituzionalizzata dell’espressione della fede comunitaria. Sono necessarie ma anche, come sta succedendo qui da noi, a volte troppo ingessate, sia nel ruolo che in dinamiche molto complicate e mostrano spesso la loro fragilità. Dobbiamo trovare altre vie. Adesso quello che prevale è una narrativa religiosa esclusiva: “Dio mi ha promesso e dato la terra e dunque me la tengo e non la divido”.

E’ necessario anche qui individuare leadership religiose capaci di andare oltre, tese a cooperare con la parte migliore della società nel creare una nuova cultura della legalità e diventare così una voce libera e profetica di giustizia, diritti umani e pace. Leadership capaci di rileggere e redimere le letture diverse e antitetiche delle proprie storie religiose, culturali e identitarie. Le ferite causate nel passato remoto e recente, come pure quelle attuali, se non sono curate, assunte, elaborate, condivise, continueranno a produrre dolore anche dopo anni o addirittura secoli. Insomma, bisogna fare in modo che le religioni non siano funzionali alla lotta politica, evitando di diventare esse stesse come benzina gettata sul fuoco.

La notte di Natale ascolteremo le parole dell’evangelista Luca che riporta quanto gli angeli dicono ai pastori: “Gloria a Dio nell’alto dei cieli e sulla terra pace agli uomini che egli ama”. Per noi cristiani cosa vuol dire credere nella pace in un tempo segnato da ferite e da violenze? Cosa significa attendere il Salvatore, Principe della pace?

Anzitutto vuol dire che noi vediamo ciò che crediamo. Se non vediamo i segni della pace vuol dire che non ci crediamo. Si vede con il cuore, non con gli occhi. Si vede in base a quello che abbiamo dentro, si vede con la fede che permette di intravedere anche oltre la realtà. Il profeta Isaia che abbiamo letto in questo tempo di Avvento “vede” una Gerusalemme ricostruita anche se al tempo era tutta distrutta. E’ la fede che gli consegna questa speranza.

Gli angeli, nel racconto lucano, dicono ai pastori: “Il Salvatore è nato per voi”. Non per Erode o per i sacerdoti del Tempio. Loro, che pure stavano ai margini nella società del tempo, sono stati capaci di ascoltare. Non avevano nulla da difendere o da proteggere. La fede dunque è la capacità di vedere anche quello che gli occhi non sono capaci di riconoscere e questo rende possibile lavorare e lottare per ciò che si spera. Se non c’è questo, non scommetti, non ti butti. Natale dunque è anzitutto risvegliare la propria fede nel Salvatore che è venuto “per me”. Quel Salvatore che è entrato dentro una storia ferita e l’ha salvata con il suo stile. Gesù davanti a Pilato, nel vangelo di Giovanni, dice che il suo Regno non è di questo mondo. Il Regno di Dio, il Regno che Gesù ha portato, non è un Regno più forte degli altri ma è diverso. Perché se il suo Regno fosse di questo mondo “gli angeli sarebbero venuti a sconfiggere gli altri”. Ma la logica del Regno di Gesù è quello del dare la vita per

Com’è la situazione a Gaza? E come sta la piccolissima comunità cristiana alla quale sei molto legato?

A Gaza quasi nessuno lavora più e il 90% delle persone è sfollato. Si vive nell’emergenza, e non mancano solo cibo e medicinali, ma pure l’educazione scolastica. E’ una situazione economico-sociale vicina al collasso. Come sai, l’ultima volta che sono entrato nella Striscia ho incontrato e parlato con ogni famiglia della nostra comunità cristiana. Sono coraggiosi. Non si arrendono, ma naturalmente si interrogano sul loro futuro, e soprattutto su quello dei loro figli. Non hanno una parola di risentimento, nemmeno una, pur avendone molti motivi perché i problemi sono tanti. Recentemente un cristiano è stato ferito gravemente, il cibo scarseggia anche se riusciamo a mandarne un po’. Sono entrato a Gaza convinto di dover portare loro parole di speranza e di consolazione. Invece sono loro ad avermi dato una lezione che non dimenticherò mai: la fede incrollabile di quelle persone, accompagnata da sorrisi rassicuranti, mi ha segnato profondamente.

Cosa possiamo per essere noi segni di pace ed essere vicini alle donne e agli uomini della Terra Santa?

Abbiamo parlato prima del coraggio della pace. Dovete avere coraggio e venire. Abbiamo bisogno di vedervi qui, dovete cominciare a venire. Siamo molto grati del supporto anche finanziario che è stato dato da tanti di voi. Ora abbiamo bisogno che la vostra presenza riempia le nostre strade. Altrimenti diventa molto difficile ricucire se il Paese è fermo, è morto.

E poi credere che la fragilità del bimbo che nasce a Betlemme consegna a ciascuno di noi la responsabilità di fare del nostro mondo un mondo più vicino al sogno di Dio. E’ possibile ricominciare, sempre.

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