
Se noi dai campi di prigionia, ovunque siano nel mondo, salveremo i nostri corpi e basta, sarà troppo poco. Non si tratta infatti di conservare questa vita a ogni costo, ma di come la si conserva. A volte penso che ogni nuova situazione, buona o cattiva, possa arricchire l’uomo di nuove prospettive. E se noi abbandoniamo al loro destino i duri fatti che dobbiamo irrevocabilmente affrontare – se non li ospitiamo nella nostra mente e nel nostro cuore, per farli decantare e divenire fattori di crescita e di comprensione –, allora non siamo una generazione vitale. Etty Hillesum . “Diario”
Al contrario della violenza, nel conflitto il danno si presenta come reversibile. Si tratta di un contrasto, di una divergenza, di un’opposizione, di tutto quello che attiene a uno scontro nell’ambito legittimo di questa parola che esclude comunque componenti di dannosità irreversibile. Anche un eventuale insulto, o comunque un gesto fortemente critico verso una persona o un gruppo non appare irrimediabilmente lesivo e pertanto consente una retroazione che mantiene il rapporto dentro binari praticabili.
Il conflitto appartiene all’area della competenza relazionale, mentre la violenza e la guerra appartengono all’area della distruzione, cioè dell’eliminazione relazionale.
L’elemento più interessante di questa distinzione è che permette di definire il superamento della violenza non tanto nella rimozione degli elementi critici della convivenza, quanto nell’assunzione consapevole di questi elementi come parte integrante della relazione stessa. Quegli elementi diventano generativi dell’incontro e con la funzione di garantire all’interno dello scambio la necessaria propensione al cambiamento, ossia la dinamica rinnovatrice che proprio il conflitto produce dentro le situazioni di incontro.
E’ pertanto la relazione e non la bontà, come nel senso comune si è spesso portati a credere, la misura discriminante fra conflitto e violenza.
Daniele Novara “La distinzione fra conflitto e violenza: una necessità imprescindibile”
Nell’era della cosiddetta comunicazione globale, diventare coscienti della necessità esistenziale del dialogo forse ci aiuterà ad uscire dall’alienazione a cui l’odierna quantità comunicativa ci costringe e ci condanna.
Nella stessa radice della parola “comunicazione” c’è la parola latina “munus”, che significa, contemporaneamente, dono e anche obbligazione morale verso gli altri.
Il dialogo non è la trasmissione di un contenuto, né tantomeno la definizione sempre più specialistica di termini che informano su qualcosa. E’ la qualità della nostra relazione con l’altro e quindi del nostro essere nel mondo
Noi, esseri viventi che siamo “mancanza d’essere”, esistiamo perché coesistiamo, perché dialoghiamo.
Il dialogo quindi ci pare l’orizzonte più concreto per dare forma all’affermazione tanto sbandierata sulla centralità della dignità umana, perché impegna cioè “dà in pegno” la nostra parola e ingaggia la nostra presenza. Ci riconosce e fa riconoscere nel “tu per tu” come nella manifestazione più alta della nostra dignità e della nostra gioia di vivere.
Parlare in latino si dice “loquor”, un verbo deponente nella grammatica latina, cioè che ha la forma passiva ma il significato attivo. Dunque lo stesso “parlare” ha un senso dialogico nella sua radice etimologica. Il dialogo fermenta l’anima dei dialoganti: conduce ad un nuovo stato di coscienza.
Il dialogo fa andare oltre il pregiudizio e lo stereotipo.
Di queste catene è prigioniera la dialettica contemporanea.
Il pregiudizio è un’opinione preconcetta, capace di assumere in nome di sé stessa, atteggiamenti ingiusti.
Gesù ci insegna che sempre dobbiamo staccarci da ogni pregiudizio, non essere mai “sicuri” nel giudicare gli altri, sospendere il giudizio, perché ciò ci impedisce di incontrarli come sono. Per questo Gesù dice: “Non giudicare se non vuoi essere giudicato”.
Lo stereotipo è un’opinione rigidamente precostituita e generalizzata che non si fonda né su un’esperienza diretta, né su una valutazione di cose e persone, che in qualche modo abbiamo messo alla prova. Spesso costruisce lo stigma sociale che incastra non solo la vita di una persona, ma anche quella di molte persone, di intere comunità e interi popoli.
Ognuno di noi, sia come singoli che come comunità, fa i conti con i pregiudizi e gli stereotipi, perché sono due condizioni cognitive della nostra intelligenza, che ogni volta ha bisogno di ancorarsi su alcuni punti fermi.
Noi siamo portati naturalmente a giudicare secondo stereotipi e pregiudizi ciò che vediamo e sentiamo. Qui si rende necessario fidarsi di una diversa via della conoscenza: il salto della fede e della conversione.
Se riusciamo ad accogliere questo spazio e tempo della relazione, grazie alla nostra “buona fede” e alla coscienza del nostro limite, riusciamo a sospendere la visione limitata e ingiusta che deriva da questi pensieri preconcetti.
In questo senso il dialogo è una vera azione di fede, perché richiede un “salto” di natura intellettuale e sentimentale: chiede il coraggio e il rischio dell’incontro con l’altro.
Come insegna la ginnastica, più i salti sono complicati e rischiosi, più ci si deve allenare per farli, se no si rischia di rompersi l’osso del collo…. Così il dialogo che è una vera e propria ascesi, esige esercizio, sacrificio e, dunque, educazione.
Educare al dialogo è un grande compito, una vera missione: è però una di quelle forme di educazione che solo si rendono verosimili attraverso la testimonianza.
Ciò che si nota a livello di relazione fra persone diventa ancora più evidente a livello di relazioni fra gruppi e comunità: generazioni, religioni, razze e culture.
Qui il rischio del pregiudizio e dello stereotipo è ancora più grande, perché alimenta ed è alimentato da un atteggiamento difensivo, dalla paura della diversità, dalla presunzione della propria superiorità.
Invece, si dialoga solo “alla pari”: tutti uguali, fratelli tutti, alla ricerca di una verità che non è patrimonio di nessuno e che è sempre al di là di venire.
Merita certamente una sottolineatura il rapporto tra dialogo e vita ecclesiale.
Un rapporto delicato, rimasto come sopito per centinaia di anni, che, a partire dal Concilio Vaticano Secondo, ha ripreso una sua dignità nell’esperienza ecclesiale, ma che tuttora facciamo ancora fatica a vivere concretamente. Siamo condizionati dall’abitudine divisiva che ha separato fraternità da autorità, comunione da pluralismo, libertà da obbedienza.
Papa Francesco, nel suo discorso per la Commemorazione del 50^ anniversario dell’istituzione del Sinodo dei Vescovi , il 27 ottobre 2015 ha detto:
Una Chiesa sinodale è una Chiesa dell’ascolto, nella consapevolezza che ascoltare «è più che sentire». È un ascolto reciproco in cui ciascuno ha qualcosa da imparare. Popolo fedele, Collegio episcopale, Vescovo di Roma: l’uno in ascolto degli altri; e tutti in ascolto dello Spirito Santo, lo «Spirito della verità» (Gv 14,17), per conoscere ciò che Egli «dice alle Chiese» (Ap 2,7). Papa Francesco, 1° ottobre 2015.
Già la Genesi con il mito della torre di Babele ci ricorda che la vera comunione e la vera comunità non stanno nel “parlare la stessa lingua” e che Dio, sorridendo, “confuse” le lingue degli uomini.
La convivenza umana è segnata positivamente dal pluralismo e dallo sforzo e desiderio dell’incontro. Nessuno può detenere il monopolio di questo incontro.
Così Gesù nel vangelo ci ricorda che l’amore di Dio e l’amore del prossimo sono la via maestra della salvezza e che, in particolare, l’amore del prossimo ha a che fare con “sé stessi”, con il nostro essere il “tu” degli altri.
Il meglio del mondo, della Chiesa, della nostra società e di noi stessi, dunque, deve ancora venire perché la riscoperta del dialogo ha il potere di rifondare e rigenerare tutto.
Johnny Dotti, Mario Aldegani “ Che cosa cercate?” Testo inedito.