E’ così che in maniera perentoria mio figlio, un adolescente di14 anni, mi si rivolse una sera di tanti anni fa, chiudendo la porta della cucina perché il padre e i fratelli non potessero interferire in un colloquio che voleva essere solo nostro.
La richiesta mi trovò stupita e impreparata, non tanto per l’esigenza di confrontarsi, che in lui non era rara, quanto per l’oggetto: la vita eterna.
E io, mentre sparecchiavo la tavola, mi arrabattavo cercando di dire qualcosa di intelligente, di utile, di decisivo che traducesse lo sguardo verso il futuro, la speranza che ci supera, quell’ “oltre” che dà senso al nostro esserci. Mi resi conto della mia inadeguatezza a dar voce a quella realtà. La quale, tuttavia, mi appare talvolta così chiara, al punto da non riuscire ad esprimerla se non indebolendola nella sua forza e depauperandola nel suo valore.
Ma non solo mio figlio adolescente.
Questa è anche la domanda di un dottore della Legge:
Maestro, che cosa devo fare per ereditare la vita eterna? (Lc 10, 25).
La risposta forse più esauriente, la si trova nel quarto Vangelo quando Gesù, nella grande preghiera al Padre, proclama:
Questa è la vita eterna, che conoscano te, l’unico vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo (Gv 17, 3).
Certo, qui il termine “conoscenza”, secondo l’uso semitico, non ha niente di intellettualistico, non è astrazione o teoria. In realtà è vita, sapienza di vita, che si traduce in prassi e che si consuma nella contingenza di questo nostro tempo, negli spazi dell’amicizia e dell’amore.
D’altro canto, la “conoscenza” non è immediata, ma segue i giorni, gli anni, anche le cadute, gli inciampi, le resistenze, le fragilità della nostra carne, insieme a tutto quello che la provvidenza concede.
E’ il cammino della fede, un cammino esistenziale, quello percorso dai discepoli di ieri e di oggi che imparano nella sequela “l’obbedienza alla fede” (Rm 1, 5).
Il “dono” è già ricevuto: è la “caparra” dello Spirito di cui parla Paolo. Poi la misericordia di Dio porterà a compimento i nostri balbettii, i nostri incespicamenti per una vita di comunione, nella partecipazione piena alla vita di Dio, là dove “Dio sarà tutto in tutti” (1Cor 15, 28). Perché “vita eterna” non è il contrario di vita temporale, non è una questione di durata, ma di qualità, è vita nella sfera di Dio.
Tuttavia questa conoscenza non ci distoglie dal presente, facendoci vivere in un limbo amorfo, ma all’inverso conferisce alla nostra quotidianità un profondo spessore, insegnandoci ad “essere per gli altri davanti a Dio” (Bonhoeffer).
Quando il dottore della Legge chiede a Gesù che cosa deve fare per ereditare la vita eterna, Gesù non snocciola precetti, non presenta una piattaforma con dati, obiettivi, formule, ma racconta di quell’amore concreto di quel tale che “scendeva da Gerusalemme a Gerico”.
Ogni autentico amore ha in sé una luce di eternità.
Così l’avvenire in pienezza, che costituisce l’orizzonte ultimo, è ciò che dà significato a questa vita, la illumina e la orienta a una continua conversione.
Gesù nella preghiera esprime tutta l’intensità del suo desiderio:
Come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi una cosa sola. (…) L’amore col quale mi hai amato sia in essi e io in loro” (Gv17, 21-26).
Questa è la vita eterna: la totalità dell’amore.
Ma già ora ogni amore umano porta in sé un barlume di eternità, e apre uno squarcio di luce che ci fa pregustare quella pienezza di amore, quando, Colui che da sempre ci chiama, “trasfigurerà questo misero corpo per conformarlo al suo corpo glorioso”.
Allora davvero: la vita eterna è la totalità dell’amore e la morte non è più l’ultima parola.
“Dov’è, o morte il tuo pungiglione?” (1Cor15,55).