È il seguito del lungo, complesso discorso di Gesù: Finora egli aveva parlato soprattutto di lui, persona viva. Nell’ultima parte, invece, il discorso diventa esplicitamente eucaristico: Gesù è il pane, bisogna mangiarlo per vivere.
Di fronte all’annuncio di Gesù, gli ascoltatori della sinagoga di Cafarnao continuano a non capire. Come può Gesù dare la sua carne da mangiare? Perché la carne diventi vita, però, non basta che Gesù si doni. Bisogna che il destinatario del dono lo accolga. Bisogna, quindi, mangiare la carne e bere il sangue.
Eterno problema della fede. I Giudei che discutono sono profondamente “logici”. Niente è più logico che trovare strano il mangiare la carne e il bere il sangue di Gesù. Ma questa “logica” si fonda sulla semplice capacità di capire degli ascoltatori di quel giorno. Questo “punto di vista” è incapace di capire l’altro punto di vista, quello, precisamente, di Gesù che si dona. Ed è un dono paradossale: Gesù che si dona, infatti, diventa pane di vita. Si dona, cioè, in modo del tutto inatteso per essere davvero assimilato e per poter davvero assimilare gli stessi destinatari del dono. Ma lo stile del dono eucaristico non fa altro che ribadire lo stile di tutta la vicenda di Gesù, della sua vita e della sua morte e risurrezione, lui, “Parola” che rivela il Padre, Figlio che obbedisce fino alla morte, Figlio gratificato dalla vita che il Padre gli dona in risposta alla sua indefettibile obbedienza.
Come è strano questo Dio. E’ un Dio che dona il Figlio, il quale si fa veramente, totalmente uomo: è “carne e sangue”, stranamente mischiato con la nostra vita. “Carne”, debole, fragile, mortale come noi. “Sangue” versato, e cioè vita donata, “sprecata” per la “salvezza” degli uomini. È pane-carne e vuole essere mangiato, anzi: “masticato” (questo è il senso realistico della parola usata da Gesù e che, proprio per la sua cruda evidenza, scandalizza i suoi ascoltatori). E’ vino-sangue che vuole essere davvero bevuto.
Nell’eucaristia il ricordo di Gesù, dunque, è affidato a un pasto. Nel momento in cui muore Gesù non offre qualcosa perché il ricordo di lui non muoia. Offre se stesso, tutto se stesso. E perché il dono sia davvero pieno, si dà in modo tale da poter essere mangiato e bevuto. Per questo il suo testamento è affidato a delle “derrate alimentari” (R. Scholtus): pane che deve essere mangiato e vino che deve essere bevuto (stile di agire di Dio: anche la manna non poteva essere raccolta in quantità superiori al necessario: Es 19, 11-30. Doveva essere cibo che serve davvero per vivere).
Il ricordo di lui può essere veramente vivo solo se si ripete quel pasto: “fate questo in memoria di me”. “Questo” non è il gesto, ma ciò che nel gesto è in gioco in quel gesto: il dono della vita. Rompere il pane del ricordo vuol dire assumere ciò che quello spezzare significa, per noi e “per tutti”.