“Comportatevi da cittadini degni del Vangelo” (Fil 1, 27).
Paolo si rivolge alla piccola comunità cristiana della città di Filippi, una fiorente colonia romana in terra greca, i cui abitanti godevano della pienezza dei diritti civili, come i Romani, il massimo a cui gli uomini del tempo potevano aspirare.
Cittadini, dunque, “abitanti della città”, ubbidienti alle leggi e responsabili del bene comune, non sudditi
Cittadini, dunque, “abitanti della città”, ubbidienti alle leggi e responsabili del bene comune, non sudditi.
Paolo non prospetta un ritiro dalla città. Non c’è nessuna idea di disimpegno spiritualista o di un ripiegamento settario.
I cristiani restano ben ancorati alle cose della terra. Fedeli alla realtà concreta in cui vivono, ne apprezzano e condividono i valori, così come è espresso alla fine della Lettera ai Filippesi: “In conclusione, fratelli, tutto ciò che è vero, nobile, giusto, puro, amabile, onorato, quello che è virtù e merita lode, tutto questo sia oggetto dei vostri pensieri”. Un chiaro invito a saper accogliere quelle virtù che erano proprie dell’ambiente stoico-pagano dell’epoca.
Non c’è bisogno di metterci sopra l’etichetta cristiana o cartelli elettorali con la scritta “CREDO”.
Tuttavia, ai cristiani è richiesto un “di più”. È chiesto un comportamento “degno del Vangelo”.
Non basta ubbidire alle leggi, pagare le tasse e non fare scandali perché,“prima di essere cittadini dell’impero romano, voi siete cittadini di un Regno più grande, quello instaurato da Cristo”.
“Quanto a noi la nostra cittadinanza è nei cieli, da dove aspettiamo come salvatore, Gesù Cristo” (1Cor 3, 20).
Da quando Dio è entrato nella storia i cristiani non possono né essere indifferenti alla terra né idolatrarla
Non che questo porti a misconoscere l’importanza del vivere civile, anzi, l’inverso. Piuttosto induce a una consapevolezza maggiore.
Da quando la potenza di Dio è entrata nella storia non è più possibile per il cristiano l’indifferenza e la neutralità, ma non è possibile neppure l’idolatria della terra, del potere, del successo, in tutte le sue sfaccettature e i suoi risvolti nefasti, un rischio dal quale la stessa chiesa non è certo stata esente, perché sappiamo che c’è un unico Salvatore, ben più importante dell’imperatore di Roma, che pure era venerato come sotèr, salvatore, ma con la esse minuscola.
È la fede nella “cittadinanza nei cieli”, la Risurrezione, che dà luce a questa terra, genera libertà da ogni condizionamento, e indica uno stile di vita nuovo.
Così nella 1 Lettera di Pietro: “Comportatevi come uomini liberi che non si servono della libertà come di un velo, per coprire la malizia, ma come servi di Dio” (1Pt 2, 16).
Ed è proprio questa libertà, che deriva dall’appartenenza primariamente a quella “cittadinanza” altra, che “condiziona” il cristiano, lo introduce a un orizzonte più ampio e diverso, lo sradica da un mondo dominato da un dio che benedice il primato del denaro, ciò che oscura la verità del Dio vivente e la dignità di ogni uomo, quella dignità che deriva dall’essere uomo.
Ogni essere umano è un valore per se stesso, indipendentemente dalle sue appartenenze e dalle sue prestazioni, dal rango sociale e dal sesso
Non anzitutto un concetto morale, ma una realtà teologica e antropologica insieme, per cui ogni essere umano è un valore per se stesso, indipendentemente dalle sue appartenenze e dalle sue prestazioni, dal rango sociale e dal sesso.
È la convinzione che permea la predicazione di Paolo dove “non c’è più ebreo né greco, né schiavo né libero, né maschio né femmina, perché tutti voi siete uno in Cristo Gesù” (Gal 3, 28), nel senso che l’uomo non si lascia definire dalla differenza di etnia o di religione, dalla condizione sociale o dal sesso. Non si esaurisce in essi.
In Cristo non ci sono più differenze. O meglio, le discriminazioni possono rimanere e infatti rimangono, ma non sono determinanti per stabilire il valore di una vita.
Per concludere. Per essere “degni del Vangelo” nella società che abitiamo, è necessario scoprire e poi coltivare l’umanità che è in noi e in ogni uomo, e lavorare per essa.
Riprendendo le parole di un contemporaneo, potremo dire che
essere cristiano è diventare uomo di verità seguendo Cristo: è cristiano chi diventa uomo” (Denis Vasse).
Anche Bonhoeffer in “Resistenza e resa” esprime lo stesso concetto:
Essere cristiano non significa essere religioso in un determinato modo, fare qualcosa di se stessi (un peccatore, un penitente o un santo) in base a una certa metodica, ma significa essere uomini. Cristo crea in noi non un tipo di uomo, ma un uomo. Non è l’atto religioso a fare il cristiano, ma il prendere parte alla sofferenza di Dio nella vita del mondo.
L’aprirci al dolore di Dio nel mondo, concretamente, oggi, nelle grandi scelte e nella ferialità dei giorni, significa liberare la disumanità dei più deboli, dei dimenticati, dei menomati nello spirito e nella carne, degli esclusi, dei senza parola, dei senza potere, dei senza patria, dei senza nessuno, dei senza amore.
C’è un mondo che reclama verità, giustizia, pace, amore, che chiede di essere riconosciuto, che chiede di esser-ci.