Gesù mette in guardia la folla numerosa che lo ascolta dagli scribi che amano esibirsi e occupare i primi posti, mentre vessano le vedove. E subito dopo segnala, precisamente, una vedova che getta due monetine nel tesoro del tempio, mentre molti ricchi ne gettano molte e pesanti e offre ai suoi ascoltatori il suo insegnamento paradossale.
Nella prima lettura, tutto è pieno di fede. Elia crede a una vedova straniera e povera e questa crede nella parola di Dio. Tutto è autentico. Tutto denuncia ciò che non è autentico.
La nostra cultura è descritta spesso come la cultura dell’apparire. C’è un travaso continuo tra privato e pubblico: il pubblico diventa privato e il privato diventa pubblico. La conseguenza è che viviamo in una vera e propria ossessione dell’apparire: si vuole apparire di essere più di quello che siamo. E, spesso, questa cultura inquina anche la fede che si riduce a pura esteriorità, a gesti vuoti e senza il peso della vita, oppure, ciò che fa (quasi) lo stesso, a pura prestazione. Diventiamo i moderni farisei che si vantano di fare molto e di meritare molto per quello che hanno fatto.
Come è straordinaria l’immagine della vedova: dà quello che non ha, offre la sua mancanza.
Abbiamo ricevuto tutto. E quindi il dono più bello è restituire qualcosa di quello che abbiamo ricevuto, offrire, come la vedova, la nostra povertà: offriamo ciò che non abbiamo.
Va visto in questa ottica il valore dei nostri gesti di carità, di attenzione agli altri…
Abbiamo ricevuto tutto. Offriamo solo quello che abbiamo ricevuto.