
Appena mi sono svegliato ho dovuto, con qualche fatica, fare mente locale, anzi: mente temporale: siamo nel 2023. Della piccola fatica non mi sono sorpreso se penso alla fatica che il giovane Proust faceva per addormentarsi: vedi le molte mirabili pagine agli inizi della “Ricerca del tempo perduto”. Io ne ho fatta molto di meno, sia perché dovevo svegliarmi e non addormentarmi, sia perché non sono Proust.
Ma un pensiero mi ha attraversato subito la testa. L’evento particolarissimo della fine dell’anno è diventato straordinariamente ordinario. Ieri sera ho sentito solo qualche scoppiettio timido, in lontananza. Poi mi sono addormentato.
Riflessione da prete. Se riuscissimo a scoprire quando di straordinario c’è negli eventi più ordinari della vita!
A fine anno si è ringraziato molto, da parte di tutti: ringraziamenti “laici” e ringraziamenti “religiosi” che spesso si sono incrociati tra di loro. Il dire grazie si riduce spesso a un gesto scontato perché ampiamente dovuto. Questione di elementare buona creanza, si pensa.
Invece, il “gesto” di ringraziare è impegnativo, complesso. Se io riconosco di aver ricevuto riconosco anche, necessariamente, di aver avuto bisogno di ricevere. Ero povero, povero comunque di qualcosa, magari solo di legami, e qualcuno ha provveduto. Riconosco dunque la mia povertà e riconosco il mio legame con qualcuno che, bontà sua e fortuna mia, ha rimediato a quella povertà.
Poi, magari, non ci si pensa. Ma quel legame resta vero e il grazie resta serio, nonostante tutto.