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Giacomo Chiapparini, l'imprenditore di Romano di Lombardia

Si è parlato molto del dramma dell’imprenditore agricolo Giacomo Chiapparini, di Romano, ucciso dalle forme di grana padano che gli sono crollate addosso. Ma si è parlato molto anche della “lettera” che i figli dell’imprenditore gli hanno indirizzato durante i funerali

“Quante volte abbiamo sperato che tu rallentassi la tua corsa…”

«Quante volte, papà, abbiamo sperato che rallentassi la tua corsa nella vita e quindi potesse rallentare anche la nostra, così da vedere cosa c’era fuori dal finestrino. Rallentando avresti potuto vederlo anche tu, capendo cosa c’era di importante oltre la tua attività».

Così inizia la “lettera”, singolarmente sincera e coraggiosa, che i figli hanno indirizzato al papà, Giacomo Chiapparini, l’imprenditore agricolo di Romano morto a 74 anni, alcuni giorni fa, a causa del collasso degli scaffali nel magazzino di stagionatura dove erano stivate 16.600 forme di Grana Padano.

Ucciso dalle forme di formaggio della sua azienda, una sera, di domenica

Tutto è stato “troppo” e tutto è stato “strano” nella morte di Chiapparini. Incredibile la natura dell’azienda, incredibile l’incidente e, dell’incidente, ancora una volta, incredibili le dimensioni: tutte quelle scaffalature che collassano come un gigantesco castello di carte. Incredibile che sotto quel crollo resti imprigionato l’imprenditore, che stava lavorando, di domenica e di sera (l’incidente è avvenuto infatti nella serata di domenica 6 agosto). Incredibile soprattutto la personalità del Chiapparini come emerge dal giorno e dall’ora dell’incidente, ma anche dalla lettera che gli hanno indirizzato i figli. 

Molto bergamasco, questo Chiapparini. Che parlava sempre in dialetto, ci hanno raccontato le cronache, e che spesso aveva bisogno della figlia che faceva da interprete con clienti e fornitori. Ma molto bergamasco, soprattutto, nella sua furiosa voglia di lavorare. 

Gente che non ha lavoro e gente che lavora troppo

Tutto questo fa inevitabilmente pensare. Lì, dove passava la parte maggiore e, facile pensarlo, la parte più amata della sua vita, ha trovato la morte. Si è trovato sepolto proprio sotto le forme del formaggio alle quali dedicava tutte le sue cure. Al funerale l’accorato lamento dei figli sembra possa essere interpretato come un rimprovero al papà che, forse, si curava più delle forme di grana che di loro, più dell’azienda che della famiglia. 

Il caso di Chiapparini suggerisce inevitabilmente una morale – forse anche un moralismo, tutto sommato facile, ma necessario. Si deve lavorare, perché senza lavoro non si vive. Elementare. E molta gente, anche da noi, non ha lavoro e vive male (tutte le discussioni e le proteste di questi giorni su reddito di cittadinanza e salario minimo rimandano, in fondo, al lavoro che non c’è e all’inquietudine, per molti, di non riuscire ad arrivare a fine mese).

Esiste anche il tempo in cui non si lavora e si “butta via il tempo” per coltivare legami e fare cultura

Dall’altra parte il dover lavorare porta a forme di schiavitù che assorbono totalmente la vita e rendono difficile gustarne gli aspetti “liberi”, regalati agli affetti e alla cultura. Siamo alle solite: il troppo poco di chi non ha e il troppo tanto di chi ha già. 

La morte dell’imprenditore di Romano rimanda, dunque, a un dato semplice: si è sempre sollecitati a una scelta: impiegare “bene” il proprio tempo per lavorare oppure “buttarlo via” per coltivare le nostre ricchezze interiori e stare con le persone che si amano. 

Alla fine, poi, quando, dopo aver lavorato e lavorato, si ricupera una elementare forma di lucidità, ci si accorge che il tempo buttato via è quello impiegato meglio. E ci si accorge anche che avere qualche migliaio di forme di grana in meno e qualche affetto in più rende più bella e più piacevole la vita, anche quella spesa per lavorare. 

1 Comment

  1. Alberto ha detto:

    Nei miei 50 e più anni da piccolo imprenditore, ho avuto modo di conoscere centinaia di altri piccoli imprenditori soprattutto bergamaschi. Tutti grandi lavoratori, molto orgogliosi del proprio lavoro, ma purtroppo spesso privi della necessaria “cultura di impresa”.
    Intendo dire che ho conosciuto troppi imprenditori che lavoravano nella propria azienda senza tener conto del valore del lavoro loro proprio e dei propri familiari. Insomma, a fine anno l’azienda, a conti fatti, era in perdita se si fosse contabilizzato il valore corretto delle ore di lavoro prestate.
    Alla fine, non da oggi, non basta più saper lavorare per fare impresa, occorre cultura e formazione.
    Sembra invece, soprattutto da parte sindacale, che sia acquisita oggi la necessità della formazione continua dei lavoratori, ma non altrettanto di quella degli imprenditori.

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