Il tempo presente è tempo di esplorazioni e ricerche, di rotture e di prove, di diaspore, di incontri e di movimenti; di sradicamenti e di condivisioni. Molti vivono appartenenze diverse, “deterritorializzate”: a luoghi e legami, a tempi del vivere che sono in tradizioni, culture, diritti, sogni di futuro diversi, vicini-lontani. E vivi, in cambiamento. C’è spazio per la rideclinazione di tradizioni e radici culturali e per l’inizio di nuovi legami. Ma anche per fratture e chiusure, generazioni di comunità della paura.[1]
Tutto questo non avviene in modo pacifico, scuote i paesaggi interiori, a volte rompe il rapporto con il futuro o crea nuovi sensi di colpa. Sul limitare dove quasi un mondo possibile si fa intravedere, lí si vivono smottamenti e pressioni delle paure e delle rabbie, dei risentimenti e delle frustrazioni.
La vita nei frammenti, nelle fratture, nelle paure, per molti è una vita amara e senza speranza
Oggi si gioca una relazione particolare tra diaspore, nuovi radicamenti, appartenenze plurali e tenuta della convivenza come esperienza viva di incontro e riconoscimento, di costruzione comune e di riconciliazione, di responsabilità ed equità. In cui scoprire come essere se stessi senza chiudersi all’altro ed essere aperti agli altri senza rinnegare la propria identità.
La vita nei frammenti, nelle fratture, nelle paure, per molti è una vita amara e senza speranza. Chiude gli sguardi sulla sola visione di pericoli e di fantasmi di minaccia: l’avvelenamento della rabbia, dell’impotenza, della frustrazione blocca le capacità esistensive delle donne e degli uomini. E si insteriliscono i legami, si evitano le responsabilità, si offuscano i riconoscimenti.
Vivere incertezze ed esodo attiva con più forza la reattività immediata, quella che brucia lo spazio della riflessione, del sentire, del cogliere il valore delle persone e delle cose: il gesto reagisce, impone, costruisce la situazione, disegna il significato, stabilisce la logica. Una logica che non di rado è prepotente, violenta, o menzognera.
Tutti sorpresi ad essere parte, e non tutto
La questione è antropologica, culturale ed etica. La scoperta della diversità al cuore di se stessi è una scoperta difficile e sorprendente (per molti dolorosa): lo è per i migranti e lo è per chi da residente è messo in cammino, si scopre in cammino, all’aperto. Tutti sorpresi ad essere parte, e non tutto, specificità e non universalità. Certo tale scoperta si dà su itinerari esistenziali diversi e in condizioni di forza e tutela molto distanti: comunque tutti sono obbligati alla condizione di ripensare all’origine propria, ai propri valori, ai desideri ed alle prospettive di futuro da consegnare ai figli ed alle figlie.[2]
La diaspora e una condizione di esodo accomunano nella differenza. La diaspora è condizione che porta sul limitare tra dispersione e ritrovamento, tra sperdimento, sradicamento e avvio di un cammino nuovo nel quale rideclinare le origini e i lasciti ricevuti. L’esodo è esperienza di separazione e di inizio, di distanza, di slegame e di nuovo legame osato; eppure, e insieme, è anche esperienza di nuove compagnie, di condivisioni, di cammino con i “propri” e gli “altri”. Stranieri tra noi, e stranieri in noi, quasi ritroviamo relazioni, linguaggi, pratiche di un mondo possibile. Spesso emergono i fondi oscuri del rancore e del risentimento, del senso di minaccia e della paura. I linguaggi, le pratiche e le relazioni, allora, possono divenire quelle della legittimazione dell’esclusione, della rabbia, della negazione dell’altro.[3]
La convivenza non può abolire le differenze, ma può farle dichiarare e narrare
Una convivenza che si fa nuova, che si fa esigente esperienza di vita comune vive molto perturbata nella sua ricerca: non può abolire le differenze ma può farle giocare diversamente, non può abolire le contraddizioni ma può farle dichiarare e narrare. Luogo perturbato dalle scosse della via da aprire e dalla fatica, dove si prende un po’ la misura, si comincia a vedere la direzione verso la quale si vorrebbe camminare. Il confronto nel vivere insieme può portare ad armonizzare un poco delle differenze salvaguardate: non serve e non deve servire per omogeneizzarle, semplicemente può armonizzarle un poco, cioè renderle meno ostili e fastidiose le une rispetto alle altre, farle capaci di gioco reciproco.
Il mondo interdipendente e planetarizzato, nel quale tracciamo i nostri esodi, vede in crisi le regolazioni tradizionali delle relazioni e degli esercizi di potere: quelle costruite secondo dinamiche di verticalità, con riconoscimenti di autorità superiori, di un potere dall’alto. Vincoli più orizzontali, segnati da reciprocità e riconoscimento, legami generativi e di reciproca messa in sicurezza sono, per ora, solo una debole sperimentazione, seppure diffusa e reale.
Ma sono segni di futuro. Nascono dove si prova a fare esperienza dell’autorità che viene dal fragile, dalle condizioni di vulnerabilità, dalle vittime e dalle periferie. L’altro lo puoi temere e puoi farne un nemico, ma dell’altro puoi vedere anche lo sguardo che ti chiede affidabilità e cura. Pure nel cuore dei conflitti.
Leggi anche:
Lizzola
[1] M. Ambrosini, Immigrazione irregolare e welfare invisibile, Il Mulino, Bologna 2013
[2] P. Gandolfi, Noi migranti. Per una poetica della relazione, Castelvecchi, Roma 2018
[3] M. Zambrano, L’agonia dell’Europa, Marsilio, Venezia 2009