Nel grande marasma della campagna elettorale verso il 25 settembre sono tante le variabili in gioco: simboli, dibattiti, parole, promesse, sondaggi. Le città si tappezzano di manifesti, le sedi dei partiti brulicano di nomi e di fogli. Forse un po’ meno i tavoli nei bar e nelle case.
Slogan e programmi danno sempre da pensare: sicuramente, non é passato sottotraccia quello della Lega che ha scatenato diverse reazioni.
Come ha scritto Lorizio su Avvenire “vedere la parola «credo» sui manifesti elettorali di una o più città è certamente singolare e interessante”. Il dibattito aperto negli ultimi giorni tra il teologo e Matteo Salvini può essere uno spunto non solo per un’indagine sociologica (della quale il leader della Lega appare – almeno per alcuni – come un ottimo osservatore), ma per un carotaggio più efficace in quei solchi della riflessione. Con tutto l’intento di non crocifiggere ancora una volta Matteo Salvini (cosa che peraltro aumenterebbe il suo consenso) si spera di osservare criticamente la complessità e la ricchezza di quello che si nasconde nel suo linguaggio.
Di seguito, alcune considerazioni sulla questione.
La campagna di comunicazione della Lega ha qualcosa di geniale: basare intenzionalmente la propria campagna sull’ambiguità di immagini e parole attrae e fa parlare di sé. Quante volte i titoli e gli slogan più riusciti sono quelli che sfruttano la natura polisemica del linguaggio!
Quante volte, pur essendo tutto abbastanza chiaro, ti inducono a fermarti a riflettere.
É proprio questo che mi ha spinto a scendere un po’ più a fondo. Leggendo l’articolo di Lorizio, infatti, concordo con lui sulla distinzione tra un’accezione forte del termine ed un’accezione debole. Tuttavia mi sembra si tratti di una distinzione che non è solo linguistica, ma che sgorga dall’uso e dalle nostre vite. Essendo il linguaggio mediazione e non solo strumento, la vita e le azioni sono da esso assorbite e restituite. Si tratta di un piano del discorso sottile ma estremamente decisivo. In questo senso, la campagna della Lega sfrutta tutto il potenziale linguistico del verbo credere. Orientando e disorientando allo stesso tempo.
I miei dubbi sorgono nel procedere della discussione. Lorizio scrive, infatti:
E, sempre per questo, si tratta della prima persona che afferma di credere. Diventa così interessante pensare, anche nel nostro problematico contesto socio-politico, che la fede in senso forte può essere indirizzata solo a una persona (per noi il Dio di Gesù Cristo), laddove la fede in senso debole (ossia come opinione) può rivolgersi anche a delle tesi, a dei programmi a delle scelte empiriche.»
Siamo proprio sicuri che la differenza tra l’accezione forte e l’accezione debole della parola credere stia nel credere in qualcuno piuttosto che in qualcosa? È il destinatario del nostro assenso (che sia un chi o un che cosa) che scompagina le carte o il contesto in cui le parole nascono?
L’esperienza umana del credere è in fondo qualcosa di universale: chi di noi di fronte al darsi di un evento (che sia la nascita, la morte etc.) non è interpellato lì nel suo sentire a decidersi e ad affidarsi ad un senso che si dà e che appare indeducibile?
In questo senso penso che si possa dire che l’esperienza del credere sia esperienza di tutti. Anche di chi non crede necessariamente in una divinità.
Credo – pur non sapendolo con certezza – che per questo la Lega parli a tutti e definisca il campo di gioco: l’esperienza umana. Sceglie qualcosa che é condiviso e vissuto da tutti e di questo le va riconosciuto il merito. Forse le distinzioni proposte da Lorizio non sono così pertinenti. Più che una distinzione tra il credere in qualcuno o in qualcosa ritengo che il nucleo della questione riguardi maggiormente gli ambiti, i contesti, le matrici differenti, le circostanze. Mi spiego: è l’insieme di questi fattori sopracitati che connotano il verbo credere, non solo i destinatari differenti a cui si rivolge l’assenso (con il rischio non indifferente di generare ambiguità in cui Salvini si getta a capofitto).
D’altro canto, Salvini, partendo dalla distinzione di Lorizio (che, sicuramente, riflette su un altro piano), annacqua e appiattisce semplicisticamente la differenza linguistica e la trasforma in separazione tra credo teologico e credo laico. Interessante il passaggio seguente:
Sgombrato dunque il campo da ogni possibile confusione, i passaggi decisivi sono a mio avviso due. Innanzitutto il recupero, ragionato ed esperienziale, di certezze. In una società liquida, sfiduciata, corrosa di relativismo, e infine sempre negativa, è importante tornare a ‘credere’ in qualcosa. È insieme l’ottimismo della ragione e della volontà. Credere è dunque l’opposto di dubitare. È voglia di fare, di costruire, di operare per ridare coesione alla nostra società, per rilanciare l’Italia, partendo da valori chiari, sentiti, vissuti concretamente.”
Confesso che mi fa molta paura il credo da lui propugnato. Ed è qui che occorre fare alcune distinzioni sulla concezione umana della credenza. Siamo così sicuri che credere sia recuperare delle certezze? Che sia l’opposto di dubitare? Mi pare invece che l’atto di credere si dia in un dinamismo drammatico. Sua cifra peculiare non è forse la ricerca, non é forse il dubbio? (E non sono i soliti santi a dircelo, ma ogni pensatore libero). Davanti alla grezza vita nella quale tutti siamo immersi, mi sembra difficile aderire e conferire assenso a qualsiasi cosa (dagli ideali ai valori, perfino alla divinità) con l’ottimismo della ragione e della volontà.
Salvini in fondo si diverte a far leva sulla pancia e su quei significati ancestrali che un po’ tutti sentiamo. Tuttavia, la pancia non va demonizzata: il metodo ignaziano, per esempio, conferisce grandissima rilevanza al sentire e alla ricchezza incastonata nelle viscere. Insomma c’è una pancia che vive di solletico ammiccante e una di inquietudini e riletture.
Da ultimo questa stimolazione del leader della Lega fa presa su quella parte di Chiesa che ancora non si rassegna a pensarsi come minoranza, che crede in valori chiari e definiti piuttosto che nella vertiginosa e scartavetrante proposta di Gesù di Nazareth, il quale pone domande e scatena libertà impensabili, sicuramente non copioni da seguire.
E allora: ha ancora senso scommettere sulla libertà? Ha senso scommettere sulle distinzioni e sulle riunificazioni, sulle sfumature, sulla lingua, sulla complessità?
O sono solo quisquilie per un’élite?
Non credo.
Martino Rovetta
Acli Bergamo Aps
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