Ci sono alcune storie personali che non possono essere raccontate senza narrare insieme tante altre storie di donne e uomini, senza riferire di gruppi ed esperienze sociali, di cammini di organizzazioni e di servizi, senza tracciare gli sviluppi delle trame di comunità e di luoghi di vita e relazione. E non può che essere ricostruito così anche lo sviluppo delle riflessioni che hanno accompagnato quelle storie, come pure i modi delle assunzioni di ruoli e dell’esercizio di responsabilità che in esse si sono date.
Ci sono storie di “persone comunitarie” in cui si intrecciano, trovano spazi ed evidenza ricerche di significati e valori di tanti, insieme a speranze, a “prove pratiche” d’umanità e relazione giusta. Sono storie di persone in cui un poco si “totalizzano”, direbbero filosofi contemporanei, sforzi collettivi e processi di riconoscimento comunitari. Sono storie tracciate nel cuore degli incontri, delle relazioni, dell’apertura all’altro. Storie della Vita tra le vite. La storia di Vincenzo Bonandrini (Casnigo, 16 aprile 1944 – 19 maggio 1994. Presidente Acli di Bergamo dal 1981 al 1988. Nel 1994 è eletto senatore della Repubblica) è una di queste. Non può essere raccontata altrimenti. E non si può raccontare che così anche la storia di Gianfranco Sabbadin (vice presidente delle Acli di Bergamo, dirigente dell’ENAIP regionale, fondatore della cooperativa La Cascina di Villa d’Almè).
Proviamo, allora, a tornare a conoscerci e a prendere forma, nella nostra esperienza umana e sociale diffusa, incontrandoci ancora con queste storie di “persone comunitarie”, con la profondità degli anni della compagnia e della condivisione. Non nel modo dell’identificazione carismatica, che sottolinea “esemplarità”, che Vincenzo e Gianfranco certo rifiuterebbero, e che forse li allontanerebbe da noi. Piuttosto proviamo un incontro con una densità di vita, uno stile, un pensiero, un’operosità, una spiritualità che, cresciuta, diffusa e provata tra tanti, viene raccolta, accompagnata, e resa un poco di più consapevole da alcuni. Interpreti che sanno dare forma, esprimere coscienza.
Quello che intendiamo provare è l’incontro di tanti mondi vitali che esprimono servizio, professione, economia, formazione e compagnia, con vite reali: personali esperienze di testimonianza, progetto, senso fondativo.
Esperienze come quella aclista non prendono forse forma all’incrocio tra esercizi di libertà, fondazioni di opere, impegni assunti reciprocamente? Non sono ricerca operosa di un agire sensato, di trame cooperative, di relazioni educative? Le Acli non ci sono per ragioni forti, di organizzazione, di esercizio di potere. Anche se con organizzazione e potere fanno i conti, senza moralismi e demonizzazioni, ma senza facile condiscendenza.
Nel momento in cui le Acli cercano i modi e le parole di una rifondazione (ma Vincenzo preferisce parlare di rigenerazione come per un organismo vivente, in cui lo Spirito di vita e la fecondità di maternità e paternità hanno il ruolo decisivo) si tratta di tornare a nascere nei luoghi in cui si danno le relazioni sociali, e le relazioni tra le persone ed i fatti economici, tra le persone ed i fatti civili, istituzionali
Tornare a nascere vicino ai luoghi dove ci si fida a generare, a dare senso alle competenze ed al lavoro, a stabilire patti e condividere progetti, a orientarsi nelle scelte sul futuro proprio e della comunità, a fare famiglia e relazione responsabile tra le famiglie, a educare e orientare, a usare tempo e risorse scoprendole da destinare ad altri… Ci vuole la cura della formazione, della riflessione non saltuaria, dell’incontro. Poi anche, certo, ma poi, cura organizzativa, razionalizzazione, forte sostegno alle strutture dei servizi, alla loro efficienza ed immagine.
La memoria che facciamo è parziale? Sicuramente, e non può non esserlo, ma lo vuole essere consapevolmente, per scelta: per senso di una necessità, e di priorità precise. La memoria è sempre costruttiva, non è mai passiva registrazione. Se è memoria di vita non può essere “neutrale”, tanto meno fredda. Se è memoria di vita è fedele al presente più che al passato: per questo seleziona, sceglie; e trasforma, ricerca. In certa parte fare una memoria è delineare la speranza per il nostro presente.
La memoria lascia e abbandona parti del passato. O le tiene tra parentesi, un poco sospese
La memoria, allora, a volte con coscienza a volte no, lascia e abbandona parti del passato. O le tiene tra parentesi, un poco sospese, in ombra. Quando fa questo la memoria è come se chiedesse perdono, o se volesse perdonare.
“Siamo ciò che ricordiamo d’essere stati” ci ricorda la psicologia, e questa ricerca è attiva, può esserlo. E noi, facendo memoria di Vincenzo Bonandrini, vogliamo “aprire, rintracciare i modi della nostra continuità / discontinuità nel tempo. Ci serve una memoria dialogica, progettuale. E ci costa: viviamo un tempo di prova, e di quanto dura prova! E importante che il nostro fare memoria abbia questi caratteri quando sentiamo che stagioni, personali e associative, sono compiute.
Una stagione oggi è compiuta e messa in semina. In questo anno, in cui ci sono stati tolti i doni più preziosi ricevuti abbiamo dovuto maturare nella sofferenza il senso da dare al “compimento”. Al morire e al tornare a vivere. Una ricca e feconda stagione è compiuta ma non come si compie o si finisce un’opera: questo è delle cose morte, che si chiudono, finiscono, o che si interrompono.
Neppure il compimento che sentiamo ha i caratteri di un gradino di passaggio in qualcosa che comunque evolve: come se le vite, e le vite delle comunità e delle esperienze umane, progredissero cumulativamente. No: questo sarebbe negare novità e creazioni, o possibilità di conversione e vita nuova. Sarebbe negato il primato della persona.
Il vero compimento di una stagione di vita si ha nella semina, nella sua semina: morire per far vivere, dopo avere operato profondamente, in silenzio, macerando e smuovendo. Aprendo e facendo esprimere, nuova, la capacità di creare. Compiere è seminare.
A noi capita di provarlo nel tempo del travaglio, del nuovo che nessuno è in grado di governare (e come qualcuno potrebbe presumerlo?). Tempo da cui nasceranno cose che nessuno può prevedere.
Ci vuole una saggezza che potremmo chiamare femminile per provare ad accompagnare ed accompagnarci in questo tempo, esprimendo l’unica scelta buona e di futuro, umile e ricca: dedicarsi a un “fare in ascolto”, un “fare” che è ricerca fatta con pudore e con coraggio di un atteggiamento giusto verso la realtà. Un “fare” che è il contrario della rinuncia e del lasciarsi andare. Un “fare” che è vivere, che è provare il gusto della realtà, che è avere un senso della realtà. “Fare in ascolto”, fare in cammino.
Occorre fare attenzione a non provare ad avere ragione della realtà, a partire da idee anche valide che, scontrandosi con la realtà, aprono sfide che cercano di forzare, di “dare torto” ai fatti, alle cose, agli uomini in quello che vivono e sentono. La realtà, se viene sfidata e violata, ci fa patire il danno che essa patisce per il nostro insufficiente senso della realtà.
Vincenzo Bonandrini ci invita, in tante occasioni, a un “fare” in ascolto, all’incontro con le donne e gli uomini, perché ci sorprenda il senso e la destinazione buona delle cose e del tempo. Da almeno dieci anni troviamo nei suoi interventi il richiamo insistente a rifarci alla fraternità monastica operosa, al francescanesimo.
Rifarci alla fraternità monastica operosa, al francescanesimo
Questi richiami contengono almeno tre indicazioni sui caratteri di un “fare in cammino”. La prima indicazione è di vivere e proporre realmente, nei fatti, “regole” di nuova convivenza. Così provocando, chiamando oltre e in avanti le persone e noi stessi, scoprendo di “essere nella libertà”. E così diffuso oggi il senso di necessità, o lo smarrimento e il vuoto di una libertà estenuata e ridotta al limite dello sperimentabile, dell’emotivo, dell’insensato provare!
La seconda indicazione è di mantenere e curare un collegamento essenziale con il popolo, con le persone: i monaci sono “uomini in relazione”. Compagnia che è visitazione e accompagnamento, la loro. Non cura troppo l’esemplarità, che allontana e giudica, né tenta una guida trainante e sicura, che può espropriare dalle responsabilità, impedire cammini creativi e divergenti, essere disattenta alle difficoltà e ai disagi.
La terza indicazione è di coltivare la preziosità del quotidiano. Ciò chiede visione in profondità dell’operare di Dio nell’uomo, e capacità di cogliere ed esprimere “la realtà spirituale dei fatti”, cioè la loro dimensione di “eventi” (come dice anche Michel de Certeau, autore del libro “Mai senza l’altro” che Vincenzo legge in ospedale a Pavia).
Essere “monaci delle piccole cose” e fratelli che servono per dire, con Abramo, “io sono: eccomi!”. Per cominciare a vivere, nel tempo delle diversità e delle differenze, la riconciliazione cristiana.
E il compito essenziale al quale sono chiamati in quanto adulti e credenti nel progetto del Signore. Se venisse meno l’istanza fondamentale della riconciliazione, si potrebbero attivare mille e mille iniziative, ma non vi sarebbe l’evento riconciliante della “buona novella ” che legittima la presenza dei cristiani per opere di giustizia e di pace.
Nell’esperienza della riconciliazione i cristiani si incontrano, si convocano, si “fanno prossimo dei fratelli” nei quali ritrovano l’immagine di Dio, cercano con passione e discernimento la volontà del Signore.
I cristiani riconciliati non ambiscono alle vittorie-volontà personali o di gruppo, cercano le condizioni e promuovono le situazioni storiche perché maturi una attitudine al perseguimento del “bene comune”, nel quale nessuno degli affidati alla comunità di fede nel nome di Cristo va disperso.
Si realizza, in un certo senso, una nuova fratellanza francescana per la quale il Santo di Assisi passò l’intera vita a fondare nuovi criteri di convivenza e reciprocità umana secondo la quale il mio e il nostro vivere ed essere signori non è più determinato dalla tua e dalla vostra sconfitta e sudditanza.
1rapporti interumani non meno che collettivi e di gruppo, non si reggono sulla logica della dominanza-sottomissione o sul fondamento amico-nemico. Avviene una modificazione profonda nella regolazione della reciprocità, storicamente si fonda e si dà una maggiore attitudine alla condivisione, alla fratellanza, alla cooperazione, alla collaborazione.
In senso cristiano avviene che fra quanti accolgono la riconciliazione, non sono più determinanti le singole volontà, la presenza a titolo proprio e personale. Diventano rilevanti le “disponibilità ad esserci” per compiere la volontà del Signore».
Dopo le celebrazioni del 40° anniversario delle Acli bergamasche nel 1986, Vincenzo Bonandrini scrive:
Ci siamo rimessi presto in cammino per essere presenti negli anni a venire con i caratteri della “sequela del Signore” che testimonia l’evento della Rivelazione, del “servizio reso al prossimo”, “dell’amore che riconosce” e “chiama alla concreazione”. Così facendo riteniamo di portare la vita, la vita terrena e i piccoli frammenti significanti di una vita che conosceremo meglio nel futuro dell’eternità.
Nella riflessione di Vincenzo Bonandrini non troviamo mai una lettura negativa, tanto meno demonizzante del potere o dell’azione di governo. Neppure troviamo una netta separazione tra etica pubblica, della responsabilità, ed etica privata, della convinzione.
Politica, pratica democratica e agire capace di decisione sono colte come dimensioni proprie della persona che vive responsabilmente le relazioni con l’altro. Il loro luogo originario è la comunità. La comunità non è determinata da confini geografici o amministrativi, né ha costantemente nel tempo la stessa densità e gli stessi caratteri. Qui è disegnato il ruolo delle ACLI.
Educarsi alla politica e alla pratica democratica presuppone individuare dei luoghi entro cui stare. Le ACLI scelgono di rendere opere stando nelle comunità locali per tessere intrecci tra i soggetti civili e istituzionali.
Il futuro delle ACLI sta decisamente nelle comunità degli uomini.
Quando parliamo di comunità non intendiamo solo riferirci a un gruppo di persone individuabili in senso demografico. In modo più complesso ci riferiamo a quanto è comune a quelle e in quelle persone
Stare nelle comunità continuamente ricercando, esperienzialmente “facendo esprimere quanto è comune”, vuol dire fare spazio a processi maturativi di un modo di decidere e scegliere. La decisione è intesa come farsi carico di tanti in sé, e richiede il fare spazio nella propria vita perché in essa più vite vivano, siano in relazione, in dialogo e confronto esigente.
Allora il cooperare o il coordinare diventa, sì, attenzione all’incontro tra specifiche professionalità o diversità di ruolo, ma è anche cura del contesto, della relazione che contiene ed è di tutti, dello spazio per la definizione di un orizzonte di valori condiviso. Siamo all’interno di una pedagogia sociale tesa a fare interagire libertà e responsabilità perché siano possibili (nuove) fondazioni per convivere tra le persone. Fondazioni nei gesti e nelle parole che rendono possibile il nascere e umano il morire, ricco l’educare e attento il costruire, utile il produrre e sollecito il curare.
Nelle comunità è possibile delineare, dunque, i tratti dell’attesa di conversione che vivono la politica e l’azione di governo.
E nella società, nelle città, nei territori che si vive l’evidenza del fatto che la crisi della politica non è solo crisi, è piuttosto declino della politica: declino della forma politica della città, della vita comune. «Manca un retroterra rappresentativo e anticipatore della vita sociale senza il quale non si dà né origine né futuro ad alcun gruppo umano, né si dà presente significativo»
Il declino della politica si nota nell’ ampliarsi della dimensione dello scambio mercantile nella vita sociale, tra soggetti di diritto, impegnati in un conflitto diffuso, determinabile (dentro di esso l’approdo ultimo può essere anche quello di tornare ai legami “primordiali” e difensivi: le violenze, le razze, le etnie…).
Vincenzo Bonandrini coglie aspetti diversi e sottili di questo fenomeno: riguardano il rapporto tra le generazioni, le funzioni genitoriali, l’esperienza di una nuova estraneazione da sé.
Come è possibile, per così dire, pensare alle comunità come a un “villaggio fraterno”, quando, nella realtà quotidiana, queste porzioni di popolo subiscono mutazioni profonde?
Oggi più di ieri le nostre comunità sono segnate dalle diversità. Nelle stesse strade e quartieri, condomini e singole famiglie sono presenti uomini e donne dai volti diversi, dalle lingue e parole diverse, con storie diverse di vita e di lavoro, di felicità e sofferenza, di amore e pianto, di canto e preghiera.
Non vi è certamente un miscuglio di civiltà, di etnie lontane e diverse. Si verifica un intrecciarsi, incontrarsi e scontrarsi di usanze e tradizioni diverse, o di assoluta mancanza ditradizioni specie per la generazione giovanile, soggetto e oggetto di mutamenti.
In numerose comunità — a causa della frammentazione sociale, delle forti mutazioni di stile di vita tra le generazioni, della violenta influenza dei mass-media — si dà “una compresenza di molti diversi” e si registrano “molte assenze di uno specifico proprio ” che abbia radici nel tempo delle generazioni.
Ne deriva un sentirsi estraniati da sé, una conseguente delimitazione di sé agli ambiti più riservati e privati oppure un cercare faticosi inserimenti in mondi locali non vitali perché appunto privi dei caratteri che li rendano luoghi di vita, storia ed esperienza.
Esplorando nelle attese della gente emerge una domanda di senso, di prospettiva e di orizzonte da dare alla convivenza e alla reciprocità umana6.
A questa deve collegarsi una ripresa della politica nella sua dimensione di ricerca delle forme sociali della vita buona, delle forme capaci di favorire una destinazione della libertà delle persone al bene che promuove l’uomo.
Non bastano teorie amministrative o istituzionali, né occorre cedere al fatalismo di chi si rassegna a una “politica minima”, quasi interstiziale o all’illusione di chi sogna il ritorno alla politica forte e totale (magari giustificando questo con le grandi emergenze ecologiche).
Serve invece tanto spirito di iniziativa e, per dirla con Hannah Arendt, “una dote quasi poetica: l’immaginazione”, serve la capacità di far crescere in tante persone immagini di nuove relazioni buone e giuste, forme possibili, “sperabili”, di convivenza tra gli uomini e col mondo. Sono immagini che legano e rendono responsabili. Vincenzo Bonandrini condivide pienamente quanto la Arendt intende nel dire «la politica non è forza e volontà di trasformazione, è energia di legame, relazione tra uomini e donne, abitanti di un mondo che esisteva prima della loro nascita e, si spera, esisterà dopo la loro morte».
E su questo legame che occorre lavorare riportando l’attenzione delle persone alle origini del loro vivere e agire.
Gli uomini si incontrano facendo ingresso in un mondo comune e condividendo un’umanità che deriva anzitutto dalla nascita, dalla storia, ma poi si isolano, svaniscono il vincolo dell’essere insieme, il rapporto con l’origine.
E quando ciò avviene le istituzioni comuni poggiano sul vuoto, su loro stesse: fragili e svuotate dal loro significato simbolico di richiamo allo “spazio comune”, al mondo comune che ci lega e dà contesto al nostro progetto d’umanità. La politica non può dare forza e dimensione al mondo comune se non si riattiva come energia di legame dentro la società.
Ed è da dentro l’azione sociale che uomini come Vincenzo Bonandrini e Gianfranco Sabbadin operano per riaprire nuovi spazi per agire politicamente. Perché le persone siano messe nell’occasione, e un poco nel dovere, di riconoscersi e presentarsi di fronte ad altri, di scoprire la propria libertà, di partecipare del “senso di realtà che si ricrea ogni volta che uomini e donne si scambiano gesti e parole in uno spazio comune”.
Tessere le relazioni per fondare una cooperativa di solidarietà sociale o per progettare i tirocini per corsi di Formazione Professionale in un territorio, per promuovere itinerari formativi e inserimenti lavorativi, o per ripensare politiche sociali di prevenzione, per costruire incontri tra istituzioni e volontariato,… in territori definiti, come in città, è il modo concreto che le Acli, l’Enaip, la cooperazione, l’agire volontario usano per aprire un discorso pubblico sulla verità morale delle scelte, personali e quotidiane, sociali ed economiche, politiche e istituzionali. Così lo intendono Bonandrini e Sabbadin.
E soprattutto nelle fasi preparatorie di opere e progetti (ci vuole tutto il tempo necessario), è nel procedere degli itinerari formativi che sviluppano e danno forma alle opere stesse, che cresce un nuovo senso delle situazioni. Questo “senso della realtà” è la scoperta della densità umana della realtà (quella che si dà o si nega nella vita concreta, nei suoi limiti e nelle sue potenzialità).
Così si sviluppano cammini, come quelli curati da Vincenzo e Gianfranco, tesi a “far toccare terra alle posizioni più nobili, all’amore per la verità e per la bellezza”.
La regalità della politica non viene limitata quando in essa trovano posto le convinzioni morali e le autonomie di giudizio delle coscienze. Vi può essere anzi una migliore protezione dalle insorgenti tentazioni dell’onnipotenza sia essa ideologica, economicistica o tecnocratica. L’attività politica può farsi un servizio reso al “bene comune”.
Niente di più e niente di meno. La politica è affascinante e non è tutto.
Vi è “un dopo ” e vi è “un altro ” che non appartiene ai politici eletti, vincenti o perdenti Vi è la diversità con cui misurarsi senza sopprimerla, negarla o aggirarla con l’inganno.
Con altre categorie di valore “l’Altro della trascendenza” si erge a fondare la irripetibilità sovrana di ogni persona la quale si deve sempre “rispetto e diritto”.
Alle sorgenti di un pensiero religioso e di un sentire etico può alimentarsi una forte e disarmata passione politica che sa esprimersi e autogovernarsi
Una attività politica, un’azione di governo di questa qualità è capace, dentro le comunità umane, di “aprire il tempo”.
Aprire il tempo (al futuro, al progetto personale come a prospettive di vita buona e pacifica per una terra) chiede una capacità tutta particolare: quella di leggere nel tempo personale e in quello sociale la sorpresa dell’evento. A volte la rottura dell’evento. Questa capacità è propria di persone che credono che in una storia, nella storia, si possono fare dei punti, vivere delle conversioni: persone che credono si possano cogliere evidenze di pienezza Altra. Questi “eventi”, questi incontri con occasioni “fondative” che rendono nuova la vita, che (se colti) fanno ripensare scelte e relazioni, danno dimensione e senso a iniziative e intenzioni.
L’azione politica, e ancor più quella politico-amministrativa, nel migliore dei casi, si pensa e si sviluppa, invece, attorno ai temi della gestione, del progetto (meglio del progetto-obiettivo), del programma.
Non di rado la ricerca si concentra quasi esclusivamente sulla buona funzionalità e oculatezza della gestione e della decisione; qualche volta oltre questo si sviluppa un’azione attenta alla continuità tra scelte passate e presentì, o a risposte attente a recuperare, e non fare esplodere, nuovi problemi o nuove differenziazioni realizzatesi nelle comunità. Le relazioni tra le diversità presenti o aperte sono lette tutte nei termini dello scambio, del conflitto o della rivendicazione.
Le comunità hanno bisogno, però, di scoprire oggi anche delle potenzialità nascoste, degli indizi di marcia, degli orizzonti comuni possibili. Delle vocazioni, potremmo dire. Come pure c’è bisogno d’avere finalmente chiare le alternative reali e le diverse modalità di esercizio della cittadinanza oggi presenti.
E questo può avvenire da dentro o di fronte a gesti, scelte, esperienze capaci di “disvelamento”, dentro le trame di vita e di relazione di un territorio, capaci di manifestare, di “anticipare” il nuovo, il possibile. Eventi, non fatti!
Alcuni, pochi gesti bastano, perché le storie delle comunità si riaprano a intrecci tra storie personali e “storia di popolo”, perché emergano vocazioni di territori e patti di comunità. Perché si individuino luoghi, esperienze che siano simboli identificanti.
Perché si giochino le autonomie interiori, le razionalità, le libertà delle persone, le volontà. E una politica deve scegliere, lo diceva bene Vincenzo Bonandrini, «se poggiare sulla passività dipendente (lasciando vittime di quanti manifestano ostentazione) o sull’autonomia interiore e sull’intelligenza degli uomini (con attitudini al silenzio, al distacco dagli oggetti, all’apertura libera all’altro)». Deve decidere: non c’è una via di mezzo.