“Chi devo votare?”

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Non sono un influncer. Ma qualcuno mi chiede chi votare.
Oggi la scelta del voto è soprattutto scelta decisa per la pace.
Anche il voto ormai vicino per l’Europa

Non mi sento né sono un influencer. Però, sotto le elezioni, c’era e c’è sempre qualcuno che, o perché mi sovrastima o per tentarmi, mi chiede consiglio per il voto: chi devo votare? O, più indelicatamente: per chi voti tu? Io non voglio sottrarmi alla domanda, specie se vedo buonafede, ma non è mio costume dare una risposta schierata di lista: vota X o Y. Cerco di dare risposte sintetiche (come esige l’incontro che provoca la domanda) che chiamino in causa l’interrogante.

Oggi la scelta è tra pace e guerra più che tra destra e sinistra

Per il passato rispondevo pressappoco così: “vota per chi ti sembra che meglio sostenga la causa dei più poveri, non per chi fa il tuo interesse”. E con chi mi pareva un po’ attrezzato mi azzardavo a parlare del rapporto tra una visione comunitaria e una visione individualistica della vita sociale: cioè sul bene comune e sull’interesse privato, anche nel nome della dottrina sociale della Chiesa. E il discorso slittava allora nel rapporto tra sinistra e destra. 

La scelta per la pace è diventata prioritaria rispetto alla scelta per i poveri. Anche perché con la guerra i poveri diventano ancora più poveri

Oggi però, pur restando immutata l’idea di privilegiare il povero, mi sembra che l’alternativa radicale diventi un’altra: non tra destra e sinistra (che pure esistono e sono diverse), ma tra pace e guerra. Anche perché il povero è il mondo, che con la guerra rischia la distruzione. Perché la guerra ferma lo sviluppo dei popoli e li impoverisce. Perché la guerra blocca le relazioni di fiducia reciproca tra genti diverse. 

Pensiamo un po’ come s’avviava ad essere il mondo prima della guerra in Ucraina. Non c’era l’età dell’oro, ma, cadute le chiusure tra blocchi, il mondo sembrava andare verso un processo  di integrazione e di policentrismo, in una atmosfera di distensione. La Cina si era affacciata al consesso economico e politico: la Russia, deposti gli attrezzi scaduti del comunismo e dell’ateismo, era ormai partner di relazioni economiche feconde e vantaggiose per noi; in Occidente poteva diventare anacronistica perfino la NATO. 

Con la guerra sono rinati i blocchi. E si parla continuamente di armi

È bastato che scoppiasse un conflitto e si sono ricreati i blocchi; i Paesi da sempre neutrali per tradizione si sono schierati; si è persa la fiducia tra popoli; le armi sono diventate argomento primario della politica. E, specie con la guerra in Ucraina, siamo sempre sull’orlo del possibile coinvolgimento mondiale. 

È assurdo fare una graduatoria tra guerre: sta di fronte ai nostri occhi la terribile situazione dei Palestinesi e grida aiuto al senso di umanità. Ma con la guerra di Ucraina si rischia perfino la guerra totale. Un voto per la pace quindi è quel che chiedo a chi mi chiede; e qui ora anche a chi non me lo chiede. 

Noi crediamo che fare più armi significa rischiare più guerra

So però che il discorso si divarica. C’è chi crede che la pace sia basata sulla deterrenza, cioè su un riarmo che faccia paura all’avversario e lo costringa a non fare guerra. Noi crediamo non solo che dare più armi prolunghi la guerra in corso, e con essa le perdite irreparabili e scandalose di tanti esseri umani; ma che fare più armi aumenti il rischio della guerra, anche solo per fatale errore o per qualche reazione emotiva.

Ormai ci sono già armi bastanti a distruggere il pianeta e, con questa prospettiva, già adesso solo un pazzo può scatenare una guerra atomica: e un pazzo, se è pazzo, non si lascia deterrere dalle armi altrui. La deterrenza poi, ammesso che sia servita un tempo quando la guerra poteva far rinsavire qualche esaltato, senza correre rischi irreparabili (ma anche allora ci sono sempre state guerre: si pensi alla Corea e al Vietnam e al Medio Oriente), ora non serve allo scopo, ma solo a chi fabbrica morte e appresta la morte di tutti. 

L’altra strada verso la pace. Per l’Ucraina, per esempio…

Noi – e ci sentiamo più in compagnia di Papa Francesco che dei realisti della deterrenza – vediamo un’altra strada: la creazione di fiducia e di conoscenza tra i popoli. Sicché, ad esempio, quando è scoppiata la guerra in Ucraina avremmo preferito che si mantenessero intatte le relazioni con entrambi i contendenti; che si evitassero sanzioni sia economiche (che danneggiano noi stessi) sia culturali (fa pena l’ostracismo a Dostoevskij) e sportive (esclusione dalle competizioni e perfino dalle Olimpiadi, come non si faceva nemmeno nell’antichità con la tregua olimpica).

L’aggressore ha sempre torto, ma nel torto può avere qualche ragione

Ci aspettavamo che da Paesi colloquianti ed equivicini si facessero da subito e si continuassero a farle, anche ora, giorno per giorno, proposte di accordo sulla base dell’esame delle ragioni di entrambi: senza mostrare i muscoli e schierarsi immediatamente sulla base dell’aggressione puntuale. Perché, se l’aggressore ha sempre torto, nel torto può avere magari qualche ragione. Cosa che, infatti, si vede più facilmente nel caso Palestinese, dove il torto di Hamas, non cancella le ragioni del popolo palestinese o il torto precedente di Israele, che lo prevarica e lo discrimina.

Chi accarezza la prima posizione (quella della deterrenza) si presenta come realista, come uomo che la sa lunga: “è sempre stato così”. E difatti sempre ci sono state le guerre, anche con la deterrenza. E accusa la seconda strada di astratto idealismo. Ma noi accettiamo la scommessa e andiamo a vedere le carte. Perciò vogliamo che il dialogo tra popoli riparta. Anche da questo voto: che sia un voto per la pace e per chi vuole veramente (e non solo per calcolo elettorale) la pace; e per il reinserimento in Europa dell’idea di pace col superamento dei blocchi. 

A ben vedere: se la corsa al riarmo sottrae un’infinità di risorse che andrebbero impiegate per la lotta alle miserie, che ormai ci sono anche tra noi, il discorso della pace viene ad assorbire allora quello della povertà. E quello della salvaguardia dell’ambiente. E questi sono ideali che diventano anche realismo politico.

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