Abbracciare il tempo

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Tra fenomenologia e spiritualità
Che cosa significa per noi il tempo.
E che cosa significa il tempo della Quaresima

A proposito di maestri

Ognuno nella propria vita ha i propri maestri. Quelli che quando li leggi vorresti conoscerli, prenderci un caffè, raccontargli la vita ma soprattutto farti raccontare, o forse anche solo guardarli e rimanere basito e in silenzio, in segno di rispetto e ammirazione.

“Non c’è luogo del tempo, il tempo porta e rilancia sé stesso”

Sono quelle persone che ci fanno vedere quello che non vediamo ancora, che trasfigurano la realtà, rendendola così come è, nella sua interezza e nelle sue trame nascoste. Per me uno di questi maestri è Maurice Merleau Ponty, uno degli esponenti della fenomenologia francese.

Come molti esponenti del pensiero fenomenologico, Merleau-Ponty ha riflettuto sul tempo, sul suo dispiegarsi, perché “non c’è luogo del tempo, il tempo porta e rilancia sé stesso”. Non è un caso che Martin Heidegger scrisse un monumento del ‘900 come Essere e tempo affermando che il significato dell’esistenza è la temporalità.

“Non ho tempo”. Il tempo diventato oggetto

Ma veniamo a noi. Quella che si è aperto mercoledì 14 febbraio è la Quaresima. Etimologicamente Quaresima viene da Quadragesima che significa “tempo di quaranta giorni”. Nel suo stesso dirsi il termine quaresima indica dunque un tempo. Fermiamoci per un secondo a pensare alla parola tempo. Oggi abbiamo forse quasi rimosso il senso del tempo, perché ci limitiamo a rincorrerlo, ad afferrarlo, a perderlo, a frantumarlo. Lo desideriamo come poche altre cose, ma non ne parliamo mai. Lo addomestichiamo, senza lasciarlo essere.

Oggi abbiamo forse quasi rimosso il senso del tempo, perché ci limitiamo a rincorrerlo, ad afferrarlo, a perderlo, a frantumarlo

Solo l’espressione “non ho tempo” ci dice quanto il tempo per noi sia ancora un oggetto, manipolabile e gestibile a piacimento. “Come gestisci il tuo tempo? Come lo organizzi?”, tutte domande che dicono la nostra ansia di controllo asfissiante su qualcosa in cui siamo innestati, di cui non siamo padroni. Ed è proprio nel risignificare il rapporto tra il tempo e le cose, tra il tempo ed il soggetto che fenomenologia e spiritualità si abbracciano.

Quei quaranta giorni di Gesù nel deserto richiamano quei 40 anni del popolo di Israele in un gioco inestricabile di rimandi. Un tempo smisurato, un deserto in cui cambiano le domande, in cui i vecchi interrogativi incontrano nuove risposte.

Ci vuole tempo per assaporare la promessa

Perché ci vogliono 40 anni per assaporare la promessa, per abbandonare la dolcezza amara delle cipolle d’Egitto, per purificare l’immagine di un Dio potente, per ricomprendere come si può vivere sotto uno stesso tetto, per sciogliere il possesso patologico degli affetti, per risentire la fame e il desiderio, per rimuovere le scorie della schiavitù e immaginare libertà mature, per rielaborare passaggi miracolosi ricostruendo equilibri relazionali precari, per non bramare il potere fine a sé stesso, per tornare a sentirsi corpi vivi, per non idolatrare la legge e brandirla come scudo.

Ci vuole tempo per sciogliere il possesso patologico degli affetti, per risentire la fame e il desiderio

La fenomenologia non fa nulla di diverso: prova a dare risalto all’ampiezza e alla profondità della presenza, descrive l’arco di una melodia non come note che vengono spazzate vie ma come una scia che mantiene il senso della prima nota ascoltando la seconda e così via. Istanti che non si fagocitano, ma che si costituiscono in un campo temporale. Non siamo consapevoli solo di unità estese nel tempo, ma noi stessi ci unifichiamo nel tempo. Lì ritroviamo l’integrità smarrita, nello spessore e nella densità della temporalità sta il nostro fondamento originario.

Giorgio Morandi, le sue bottiglie, spazio, colore, volume

C’è un altro maestro che mi è caro e intimo: Giorgio Morandi. Anch’egli per quarant’anni dipinse bottiglie, per indagare il rapporto tra spazio, colore e volume. Per trovare l’essenza delle cose.

Non smettere di toccare, udire, gustare

Non saprei rappresentarmi più plasticamente il cammino quaresimale. Anziché togliere, come spesso ci è stato insegnato, forse occorre riappartenersi, riappropriarsi e re-iniziarsi al mondo. Non smettere di toccare, udire, gustare. E non possiamo non farlo, incominciando a riassaporare il tempo, ad abbracciarlo, a risentirlo come fondamento. Non più relegando il passato a ciò che è stato e il futuro a ciò che sarà, ma riconoscendo il nostro vivere come un campo in cui l’ora, il non più e il non ancora si rincorrono. È lì che siamo corpo, è lì che ritroviamo l’unità. Sempre e di nuovo.

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