
«Per non morire – scriveva Pietro Citati -, il pensiero ha bisogno di misurarsi col paradosso. Si nutre di inconcepibile. E non sa che farsene di tranquille verità razionali. E questo paradosso scatena la furia della immaginazione e il trionfo della fantasia, che cercano di colmare uno spazio che non può essere colmato».
Rintracciare nella grande letteratura – anche in quella dove raramente o mai si nomina Dio – la sostanza di un discorso teologico, forse anche più radicale e rigoroso di quello sotteso a tante omelie pronunciate nelle chiese. Ci pare che, nel corso del tempo, questo tentativo abbia ispirato sempre più recisamente le ricerche e i saggi dello scrittore e critico fiorentino, morto a 92 anni il 27 luglio scorso.
Tempo addietro, all’uscita di un suo volume intitolato Israele e l’Islam. Le scintille di Dio (Bompiani), avevamo posto alcune domande allo stesso Citati. In quell’intervista, pubblicata poi su L’Eco di Bergamo, egli denunciava un oblio diffuso delle rispettive radici, tra i seguaci delle grandi religioni monoteiste:
Oggi – argomentava Citati -, non so quanti ebrei abbiano sentito parlare della teologia di Maimonide o di Yitzhak Luria, il grande cabbalista del XVI secolo; e nell’Islam la tradizione sufi è generalmente malvista, se non esplicitamente condannata. Alla base del fondamentalismo odierno c’è appunto la dimenticanza, da parte di molti musulmani, dell’aspetto propriamente mistico del Corano: da questa perdita deriva la fissazione su un sistema di regole rigidissime, su un ritualismo svuotato di un contenuto autenticamente religioso.
Che questo appiattimento sul livello del «fare» – o di un’appartenenza «consuetudinaria» – riguardi anche i membri delle confessioni cristiane, è confermato da molte evidenze. Chi ha l’opportunità di frequentare degli studenti delle scuole superiori, provi a interrogarli (senza distinguere tra quelli che usufruiscono e quelli che non si avvalgono dell’insegnamento della Religione cattolica, tra quelli che frequentano gli oratori e quelli che se ne tengono lontani) sul patriarca Noè e sul profeta Mosè, su quanti/quali siano i Vangeli canonici, sulla fede nella «risurrezione della carne» – e registri poi gli esiti.
Nella conversazione che intrattenemmo con lui, Pietro Citati denunciava appunto
il rapido declino di un immaginario e perfino di un registro linguistico che fino al secolo scorso erano profondamente radicati nella Bibbia. Anche autori difficilmente riconducibili a una precisa confessione religiosa, come Shakespeare e Goethe, si esprimevano in una “lingua biblica”: il loro lessico era profondamente plasmato dalla tradizione cristiana, alla quale in ogni caso appartenevano».
Citati sosteneva – con un’esagerazione forse voluta – che dai tempi di Dietrich Bonhoeffer (1906-1945) e Hans Urs von Balthasar (1905-1988) la teologia cristiana avrebbe sempre più scimmiottato le categorie della filosofia di Martin Heidegger o di Hans-Georg Gadamer, smarrendo la propria peculiarità:
Così ci troviamo oggi di fronte a un cristianesimo “gadameriano”, in definitiva molto poco interessante. Credo che questa estinzione del pensiero teologico costituisca una perdita gravissima: con il suo declino, gli uomini smarriscono anche la capacità di ricostruire intellettualmente l’universo, di elaborare un pensiero che vada al di là delle sensazioni, degli attimi, dei frammenti. Non siamo più in grado di vedere l’intero.
Tornando alla citazione iniziale, quella per cui occorre riconoscere il «paradosso» e con esso misurarsi: paradossale, per il nostro interlocutore, era anche che nel nostro tempo
la teologia sopravviva nella letteratura, e soprattutto nelle opere di alcuni autori marginali, per così dire, rispetto alle religioni istituzionalizzate. Come nel caso di Joseph Roth, che si considerava allo stesso tempo ebreo e cattolico, e in privato si dimostrava poi tutt’altro che un sant’uomo, anzi, era una persona estremamente frivola; eppure il suo romanzo Giobbe è una delle opere più alte della letteratura religiosa di tutti i tempi». «Penso anche a Kafka – aggiungeva Citati -, nei cui scritti non ricorre mai il termine “Dio” ma che ritorna continuamente sulle questioni della colpa, della perdizione, di una possibile salvezza per l’uomo. Non saprei dire se in questi e in altri autori di cui è difficile definire il credo, come Simone Weil, si possano rintracciare i segni di una santità particolare, “contemporanea”. Forse la santità è sempre stata un fenomeno marginale, misterioso, complesso e al tempo stesso estremamente semplice, presente anche al di fuori del discorso religioso ufficiale.
Tra le numerose opere del «lettore-scrittore» Pietro Citati, ricordiamo:
Il Male Assoluto. Nel cuore del romanzo dell’Ottocento (Mondadori, 2000 – Adelphi, 2013).
Israele e l’Islam. Le scintille di Dio (Bompiani, 2003).
I Vangeli (Mondadori, 2014).
Il silenzio e l’abisso (Mondadori, 2018).