
Sono dei cercatori di speranza. É una ricerca pratica in cui hanno bisogno di trovare segni di speranza, itinerari di speranza. Che vuol dire in qualche modo incontrare la dimensione del nuovo, del nascente. Per sperare bisogna considerare l’avventura umana come avventura di “un essere per la nascita” e non di un “essere per la morte”. Ma gran parte della filosofia del ‘900 si è invece focalizzata su questo secondo lato della medaglia: Heidegger può essere considerato il vertice di questa tendenza.
Ma ci sono poi tutta una serie di filosofi, specie di filosofe e essere più precisi – e non è un caso – penso a Hannah Arendt, Maria Zambrano, Simone Weil, Luce Irigaray che hanno sottolineato dell’umano soprattutto il suo essere per la nascita. E il fatto che siamo soprattutto inizio, apertura anche dentro la fatica e l’ombra. E di queste cose puoi solo fare esperienza. Quella dei miei studenti è generazione estremamente pratica. Tante parole vuote, tanti giri di parole, tanti sofismi non interessano. Discutere di speranza, parlare di speranza li tocca poco. Incontrare la speranza lascia invece il segno.
A fine gennaio abbiamo aperto il primo di una serie di nove incontri con 29 persone detenute nella Casa circondariale di Bergamo. A parte che mi ha colpito il gran numero di studenti che volontariamente hanno chiesto di partecipare a questo progetto, il tema della speranza è emerso subito, già nel primo incontro.
Era quello in cui le persone si stavano semplicemente presentando: mentre questi giovani cittadini, studenti universitari parlavano dei loro timori per l’incertezza del proprio futuro incrociavano i vissuti delle persone detenute. Fra queste i ragazzi sono rimasti toccati dalla testimonianza di un padre trentenne che ha detto loro «io tutti i giorni spero di sperare perché poi dovrò incontrare i miei figli». Trovavano in una persona sottoposta al carcere un uomo di speranza. Una speranza tenace per l’amore dei propri figli. E questo incontrare la speranza dal vivo per loro è stato molto importante.
È comunque difficile sperare oggi in un mondo con tante persone disperate. Ed è complicato anche perché viviamo una grande incertezza: facciamo fatica a dare un volto al futuro perché siamo circondati da troppe voci, troppe visioni diverse spesso contrastanti fra loro, sentiamo una sorta di confusione dei linguaggi. Un sottofondo rumoroso caotico – che è inevitabile in un tempo di grandi cambiamenti come il nostro – che ci disorienta. Ritrovare, alimentare la speranza chiede di costruire con la forza di relazioni fraterne alcune forme più solide di coesistenza. Concentrarci su obiettivi condivisi, così che sperando insieme agli altri alimentiamo la nostra stessa speranza. La speranza può diventare così una tonalità aperta del vivere, diventa affidamento, apertura all’inatteso che potrebbe svelarsi, diventa una resistenza pacata ma tenace.
Abbiamo la possibilità di avvalerci di due tipi di esperienze. Quelle che si sviluppano nelle condizioni in cui la vita è “provata” e che comunque cerca nuovi inizi: penso proprio alle persone detenute in carcere o alle persone che vivono cronicità o debolezze irriducibili. Possiamo portare i giovani dove la vita sembra in un vicolo cieco e non può che cercare rideclinazioni e nuove nascite. È dove c’è una forte vulnerabilità, la grande fragilità, è là che spesso si può cogliere l’agire della speranza.
L’altra esperienza è quella dei luoghi in cui il possibile incontra l’impossibile. Penso ai progetti scolastici che con alleanze e sostegno di associazioni del territorio cercano di animare un quartiere difficile, una periferia. Penso ai progetti in cui le scuole conducono percorsi di apprendimento, studio e progetto “al servizio” degli altri: case di riposo, asili, comunità, tutela del verde… Penso a chi si prende cura di un bene comune, dell’ambiente, della memoria. Insomma, a tutte quelle attività di service learning e di cooperazione a scuola. Queste permettono di tener viva la capacità di incontrarsi, di prendersi delle responsabilità, di pensare insieme. Serve una attenzione: la logica cooperativa non deve esaurirsi dentro i confini del servizio realizzato dal progetto stesso.
Le realtà del terzo settore che costruiscono solidarietà perimetrate non fanno al caso nostro. Qui si tratta di fare in modo che quel luogo fraternamente cooperativo che è la scuola porti a far lievitare tutta la “pasta” del territorio e della comunità in cui vive. Si tratta di aprire processi e cammini, di fare tessiture di reti progressive.
Più ragazzi e ragazze costruiscono se stessi vedendo come altre persone costruiscono il mondo, più saranno in grado di uno sguardo fiducioso. Non servono cose eclatanti. Anzi, quelle rischiano di far pensare che la speranza sia di alcuni coraggiosissimi e con doti incredibili, mentre la speranza è di donne e uomini normali: quelli che facevano ogni tre giorni la spesa per il vicino durante il covid, per esempio.
Beh, abbiamo iniziato questa chiacchierata con il racconto dell’incontro in carcere. Lì c’erano padri, cinquantenni, ragazze e ragazzi ventenni. Quello è stato un incontro intergenerazionale interessante. Ci sono, ci possono essere molti luoghi e incontri di questo tipo. Li abbiamo colti tra giovani volontari ed anziani durante i due anni duri della pandemia o tra i pensionati che danno vita a sostegni economici e di competenze, i giovani delle start-up. Penso anche alle figure di adulti che prestano le loro competenze manageriali, giuridiche e finanziarie per favorire la nascita di nuove imprese. Non è mai unidirezionale la relazione fra le diverse età della vita. In molte famiglie i nonni sono fondamentali nella crescita dei nipoti e nel sostegno economico delle famiglie stesse. Ma spesso (più di quello che possiamo pensare) i nipoti presto hanno loro cura dei nonni, specie quando questi vivono qualche forma di bisogno o fragilità.
Se i dirigenti scolastici, di una scuola secondaria di primo grado strutturassero le attività opzionali nel senso di un lavoro di ricerca o di elaborazione tra generazioni ne potrebbero emergere dei progetti significativi: due ore pomeridiane a settimana in cui si dà vita a un progetto di incontro intergenerazionale o, come dicevamo prima, di service learning. Non è impossibile da realizzare. Possono fare qualcosa in collaborazione con la RSA locale, raccogliere i ricordi delle persone lì accudite in un podcast o in un libro, oppure organizzare delle attività per i bambini della scuola primaria o dell’infanzia. In un paese della Val Seriana al centro S. Vincenzo i ragazzi delle medie aiutano con i compiti i più piccoli in difficoltà. E così sei già dentro una trama intergenerazionale pregna di significato: hai le persone anziane e giovanissime, hai gli adulti che ti accompagnano e ti guidano. E questo ti dà speranza, perché ti trovi immerso in correnti calde di fiducia reciproca tra le persone, tra i gruppi, tra i luoghi. E’ molto concreta la vita, fatta di cose pratiche. I valori non puoi insegnarli alla lavagna. O li vivi o non esistono.
La generazione dei miei genitori mi ha regalato la scuola media unica obbligatoria. Non me l’aspettavo, mica l’ho chiesta. Eppure è stato un gran dono. Ed è stato anche il primo segno di speranza nella mia vita. Io mi sono poi sentito in debito e così già durante il liceo ho iniziato a pensare che avrei dovuto restituire quanto mi era stato donato e ho insegnato ai corsi per adulti delle 150 ore. E quando è arrivato il tempo di scegliere dove insegnare, dopo aver vinto il concorso ho optato per un comune della provincia bergamasca dove c’era un tasso di passaggio dalle medie alle superiori del 38%: fra i più bassi d’Italia. Lì c’erano ragazzi che dicevano che venivano a scuola a perder tempo perché loro dovevano lavorare. “Non erano fatti per la cultura, per lo studio”, e questo lo pensavano anche sulla spinta dei loro genitori. La sfida è stata allora quella di ricostruire nelle loro vite l’idea che l’istruzione potesse valorizzare ancor di più le loro abilità, persino all’interno di lavori pratici e manuali. E che l’istruzione non fosse solo uno strumento di acquisizione di competenze e di conoscenze, ma di dignità. Volevamo che fossero capaci di pensarsi diversi, di pensarsi protagonisti. Potremmo dire in una parola: di sperare. E ci siamo riusciti, insieme a colleghi eccezionali. Li abbiamo coinvolti in tantissimi progetti che hanno acceso in loro la voglia di studiare. Abbiamo scritto insieme al Presidente della Repubblica e lui ha risposto. E per loro è stata una presa di consapevolezza enorme sul potere delle parole, sull’essere “capaci”, sull’essere degni di ascolto. Lo sforzo di una generazione ha continuato lentamente a dare frutto in quelle successive.