Nei primi anni ’90, il poeta Mario Luzi (Castello, Firenze 1914 – Firenze 2005) scrive la raccolta di poesie “Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini”, dedicata al grande pittore senese del ’300.
Simone Martini, secondo le fonti storiche, muore ad Avignone, allora sede papale, nel 1344.
Il libro immagina invece un suo estremo viaggio di ritorno in Italia intrapreso al richiamo di Siena e del suo mondo. Un viaggio lungo e faticoso con la carovana della famiglia: lo accompagnano la moglie Giovanna, il fratello Donato, anch’egli pittore, la moglie di lui, “bella e strana”, che pure si chiama Giovanna, le loro figlie, qualche domestico; si aggrega al gruppo uno studente di teologia al termine degli studi, che diventa testimone, interprete e cronista del viaggio. I vari personaggi si alternano, con i loro pensieri, nelle sezioni che scandiscono il cammino e il racconto.
È un libro quasi autobiografico, a detta del poeta:
mi sono un po’ identificato in questa figura, anche perché abbiamo le stesse ascendenze senesi. Poi c’è Avignone, il realismo nascente di Giotto, l’incontro con Petrarca. Sono i temi miei, Simone Martini rappresenta la dicibilità del reale, una frontiera che si pensa sempre di aver sfondato e che invece continuamente si presenta. E così anche la conoscenza e la fede…”.
Il pensiero dell’autore si dissemina poi nei vari personaggi e nell’architettura complessiva del viaggio, in cui a tratti sembrano prender voce proprio il poeta o il poema stesso.
Libro autobiografico, dunque, ma in esso si può leggere la vita di ciascuno, in una sorta di riassunto e riconsegna spirituale, memoria e raccolta del cammino umano con i suoi doni e le sue inquietudini, con i raggiungimenti e gli errori, la gratitudine, gli smarrimenti, e tutto ciò che si riceve nel tempo finito e prezioso trascorso nel mondo.
Sono molti i nuclei tematici e fuochi che attraversano e illuminano le pagine di Luzi e in ognuno troviamo indagati gli aspetti della vita nella loro imprendibile verità e profondità: le inquiete veglie notturne con l’attesa dell’alba, il lavorio silenzioso, segreto e febbrile della natura e dell’uomo prima che ricominci il giorno, la vocazione all’arte e al lavoro, la responsabilità del governo della città e la politica, l’infanzia, la memoria, gli smarrimenti, la malattia e la paura, l’umile obbedienza al compito di vivere, l’invocazione e la preghiera che salgono dal cuore, il desiderio del colore, della luce, della vita – per sé e per i propri cari – nell’ultimo ritorno a casa.
In questo libro Simone Martini è chiamato da “qualcosa” a ritornare alle sue origini e non è solo la nostalgia della sua patria – da Avignone a Siena, dalla Corte pontificia alla sua città di pittori – ma è un richiamo alla sua fonte, a leggere sino in fondo il senso della sua vocazione. Perché egli
sente che c’è un punto che l’arte non ha ancora raggiunto: il suo lavoro ha semplicemente riflesso il mondo, glorificandolo forse, ma non superandone le antinomie e i contrasti. L’artista che col suo cromatismo ha avvivato e acceso la grande pittura di Siena sente tuttavia che il colore, pur così luminoso, è sempre differenza; e invece c’è una luce che unifica tutto, che è quella che lui vorrebbe dipingere, vorrebbe raggiungere” (Luzi).
Così il desiderio che attraversa tutte le pagine e viene attribuito al pittore Simone (ma è il desiderio di ogni uomo) è quello di riappropriarsi delle fonti, dell’origine. Quella di Simone e dei suoi compagni è una carovana migrante a più voci; sono pellegrini che tornano, ma questo ritorno è per ciascuno una riconquista, dal dopo e dal fondo, delle proprie ragioni, della propria arte e spiritualità. Non una figura della nostalgia, ma un moto ultimo della conoscenza, “consapevole altresì che non si sa né quando né dove comincia o finisce un itinerario d’artista, umano, di fede”.
Il ritorno a casa, alla fine della vita diventa la riscoperta nuova e il ritorno alla sorgente, e il presentimento della morte si adombra in una prospettiva ultratemporale e ultraspaziale rovesciandosi da sentimento di estrema mancanza a prefigurazione e imminenza di una totalità.
Forse anche per questo motivo Luzi lascia pudicamente immaginare al lettore la fine del viaggio terrestre del pittore che, a un certo punto di questo cammino a più voci, esce di scena senza preavviso e senza prendere congedo.
Come esempio e invito alla lettura proponiamo tre poesie.
L’universo, i morti. Ne immagina
nell’etere gli opachi
o cristallini insediamenti. Loro
dove stanno? – intende i suoi più cari.
Ne fissa per un attimo quel vago
sfavillio di firmamento,
si sposta
lui, si sposta il desiderio
col suo ago
da stella a stella
in tutto il mirifico quadrante,
e qualcuno ne ravvisa
o crede “ma è un’insidia
del rimpianto, quella” il senso
si ravvede. Con esso gioca a volte,
nelle sue perenni ondate
l’incessante
loro e nostro mutamento.
È vero, è vero
ma persiste il cuore,
l’umano non si arrende.
È uno dei molti componimenti che indagano i sentimenti inquieti che accompagnano il tempo di sospensione notturna e attesa dell’alba e della luce: in esso il pittore – che immaginiamo in veglia sotto la volta celeste – ritrova nelle stelle il pensiero dei suoi cari ed è sospeso tra interrogazione e desiderio, tra l’insidia del rimpianto e i mutamenti che attraversano il cuore.
Rimani dove sei, ti prego
così come ti vedo.
Non ritirarti da quella tua immagine,
non involarti ai fermi
lineamenti che ti ho dato
io, solo per obbedienza.
Non lasciare deserti i miei giardini
d’azzurro, di turchese,
d’oro, di variopinte lacche
dove ti sei insediata
e offerta alla pittura
e all’adorazione,
non farne una derelitta plaga,
primavera da cui manchi,
mancando così l’anima,
il fuoco, lo spirito del mondo.
Non fare che la mia opera
ricada su se medesima,
diventi vaniloquio, colpa.
Il pittore-poeta invoca Maria, dipinta in tante annunciazioni. La prega di non venire sopraffatto e vinto nella prigione dello smarrimento, di poter custodire invece, tenendoli sempre vivi, la grazia, il colore, la luce.
Terra ancora lontana, terra arida
graffiata dalla tramontana –
le raspa il mulo
con lo zoccolo l’indurita crosta.
Passano
su di lei da borgo a borgo,
ricorda, i mercanti in carovana
e i pellegrini verso Roma.
Passano
talora da castello
a castello in solitudine
sulle loro bardate
cavalcature i capitani
con la mente a Siena
e al suo difficile governo.
Potrò, forse potrò
fissarne il più romito…
e anche lui sarà passato
senza traccia – oh grazia
equanime – su quelle luminose lande,
avendo molto provato e molto dato,
essendo e quasi non essendo stato.
La poesia contiene, (nella descrizione di un tratto di via Francigena, nella Val d’Elsa, tra Lucca e Siena) un chiaro rimando all’affresco del capitano Guidoriccio nel Palazzo Pubblico di Siena; racconta la solitudine e il difficile compito del governo della città, l’apparente irrilevanza della nostra vita che passa senza traccia.
Riportiamo un frammento in prosa di Luzi, scritto in anni che precedono la raccolta: “Ma poi, quando la sera è scesa […], l’immaginazione di tra gli edifici rimasti assorti e solitari può tornare a fingere intorno alle mura uno spazio sconfinato e irreale, abitato da uomini ben più chimerici di quelli or ora veduti. Per lo più, era quella l’ora che da ragazzo sentivo come un’arcana ventilazione frustarmi e agghiacciarmi il sangue e la mente tornava esaltata a certe immagini dell’arte senese che allora mi pareva più di altre esprimessero quella raccolta vertigine: la misteriosa, deserta cavalcata di Guidoriccio da Fogliano si associava immancabilmente ai miei pensieri e quella landa tra quelle rocche era allora la campagna circostante e quella favola tutta la vita, la sua essenza, la sua febbre”.
[(Nota: la spaziatura dei testi poetici è quella voluta dall’autore)
Per approfondimenti: Mario Luzi L’opera poetica, i Meridiani, Mondadori editore, 1998