
Dal 2016 l’Amministrazione del Parco dei Colli propone una rassegna di opere di artisti bergamaschi per dare nuove forme a identità ai valori del Parco e ai suoi luoghi.
“ColliMazioni: colli , come i colli di Bergamo;
M come mostra;
azioni, come segni di lavoro che nei secoli hanno stratificato sulla natura segni di bellezza”.
La mostra si tiene nell’antico monastero di Santa Maria in Valmarina, sede del Parco dei Colli; i dipinti e le istallazioni dialogano con i frammenti di trame murarie degli ambienti conventuali recuperati da incurie e riusi.
La comunità monastica femminile si insedia nella conca di Valmarina intorno all’anno 1150, quando anche ad Astino si consolida la presenza dei monaci vallombrosani in stretta collaborazione con il nascente Comune di Bergamo.
La preghiera e il lavoro delle monache segnano il luogo fino alla fine del ‘400, quando il sito risulta poco propizio ad una isolata comunità femminile. La comunità viene trasferita all’interno delle Muraine, confluendo nel monastero benedettino di Santa Maria Novella in borgo san Leonardo, tra il vicolo delle Torri e la porta del Mattume.
Il monastero di Valmarina resta possedimento agricolo delle monache fino al 1797; con le soppressioni Cisalpine terre e convento passano in privata proprietà e decadono.
Nel 1985 il nascente Parco dei Colli, riconoscendo nel luogo una significativa stratificazione di simboli, individua i ruderi del monastero, li restaura e vi insedia la propria sede.
Con “colliMazioni” le visioni di quattro artisti dialogano con i luoghi per trovare nuove sintesi tra natura, storia e cultura.
Con la sua costante tavolozza dai toni “écru”, Bonfanti ritrae i gelsi; sono gli alberi che hanno segnato il paesaggio delle conche di Bergamo e con le loro foglie hanno creato un’economia.
Un gelso potato, assolutamente scarno, affronta l’inverno al limitare di un fosso; si appoggia su una crosta dura; sotto la massa scura della terra e percorsa da un flusso più caldo; sopra la luce traspare dalle screpolature di un “cretto”, promessa di una nuova stagione.
Anche la terra riarsa, segnata dall’aratro, aspetta la pioggia. Si annuncia tempesta, ma su terra e cielo le ombre cupe sono rotte da squarci di luce.
I soggetti di Facchinetti sono il cielo, il suolo e le profondità della terra; il suo lavoro sembra essere un invito alla meditazione.
Racconta con assenza di forme paesaggi dove il colore è scarno, risulta un eccesso retorico, al limite, confinato ai margini. Negli intrecci, come grovigli di radici, ricerca l’armonia della bellezza.
Sobrietà assoluta, ascesi di colore, dove il vuoto è trasformato in spazi lirici e il nero definisce le forme macchiando la carta.
Nell’abside romanica dell’antica chiesa i tondini di ferro industriale evocano i volumi di un ciborio; dal vertice pende un ramo secco di bosso. La natura impiccata fa da contrappunto alla devozione devastata: non c’è altare e un tronetto per ostensorio è gettato tra foglie e sporcizia. Non c’è calice, ma una lattina schiacciata di Coca cola.
Sotto il portico nel gancio per sollevare il “tombino” (piccola tomba) si materializza la risposta a: “Dove sei?”. Una teca antica, eco di un cristianesimo lontano, protegge una radice. Da lì un cavo regge tabelle arrugginite dove “Ecce agnus dei” è scritto con parole traforate dalla fiamma ossidrica. Ancora quel cavo tiene in tensione il gancio pronto a sollevare il tombino e rottami, rifiuti, frammenti di uomini, come pescati da una rete, aspettano.
Con quattro artisti nei luoghi dell’antico monastero si anima un contemporaneo “ora et labora”: ancora vocazione, impegno, contemplazione, ricerca, dubbio e attesa.