Uno dei temi principali che attraversano la poesia di Giovanni Raboni (1932 – 2004) è quello della comunione tra i vivi e i morti.
Ci pare di poter dire, anzi, che sia il tema unico della sua opera, quello che sotterraneamente attraversa anche la parte dei suoi scritti nei quali non è esplicitamente dichiarato (ed è presente fin dalla prima raccolta Le case della Vetra, dal carattere sottilmente manzoniano, venata di compassione e attenzione già acutissime, segnata da ombre, presenze, bagliori).
A vent’anni dalla morte del poeta vogliamo suggerire la sua scoperta o rilettura in questi giorni dell’anno nei quali, per alcuni, si pone con maggiore intensità il pensiero e l’interrogazione sul viaggio e sulla vicenda umana.
Proponiamo di seguito, solo come esempio, due testi poetici (accompagnati da brevi note), poi alcune parole di Raboni trascritte da sue interviste, un estratto di una valutazione critico-letteraria e un ultimo frammento di poesia.
Tanto difficile da immaginare,
davvero, il paradiso? Ma se basta
chiudere gli occhi per vederlo, sta
lì dietro, dietro le palpebre, pare
che aspetti noi, noi e nessun altro, festa
mattutina, gloria crepuscolare
sulla città invulnerata, sul mare
di prima della diaspora – e si desta
allora, non la senti? una lontana
voce, lontana e più vicina come
se non l’orecchio ne vibrasse ma
un altro labirinto, una membrana
segreta, tesa nel buio a metà
fra il niente e il cuore, fra il silenzio e il nome…
Diaspora e paradiso: questa identità anagrammatica delle due parole presenti nella poesia racchiude anche il senso del testo.
Il desiderio di trovare la propria casa, quella che aspetta ciascuno di noi singolarmente e tutti raccolti, dopo il difficile viaggio, la paura della dispersione e smarrimento sulla terra.
Chiudere gli occhi allora per ritrovare la propria vita, una città senza ferite, un mare senza fuggiaschi e senza naufraghi.
La lontana voce dell’origine è insieme la più vicina perché parla nel cuore, dove c’è un diaframma, una “membrana segreta” che ripercuote e rimanda le voci quasi impercettibili, i pensieri, i ricordi, è sipario tra il mondo dei vivi e quello dei morti.
I pochi che aspettano, pochi
per volta, pochi e sempre, che il traghetto
torni dall’altra riva
filando piatto, silenzioso
tranne i colpi da sotto, sordi,
dell’acqua scolorita
nel furioso nevischio di dicembre
e alla Salute, a San Tomà nessuno
che parli, solo uno
che si raschia la gola,
bestemmia, tende la mano all’obolo – oh diletti
vi ho ritrovati, vi ravviso
sotto ombrelli e cappucci, è il vostro corpo
stranamente visibile
che ancora migra, si riunisce
di là, dopo la terra,
a tanto caro sangue…
È una trasfigurazione spirituale della realtà quotidiana: le parole cadenzate e ripetute che aprono la poesia conferiscono al testo l’andamento di un severo cerimoniale liturgico.
L’attesa del vaporetto veneziano, il successivo viaggio, diventano l’aprirsi di un varco verso dimensioni sconosciute; è la rappresentazione della morte come passaggio di un braccio d’acqua (con evidenti rimandi alla tradizione epica e letteraria).
L’espressione “a tanto caro sangue” che chiude la poesia è tratta da una lettera di Giulia Beccaria alla nipote Vittoria Manzoni, nella quale è raccontato un dolorosissimo lutto.
Per il poeta in queste parole si raccoglie l’esistenza umana, il tanto caro sangue dei nostri simili, dei cari e “diletti” con i quali abbiamo comunione nella vita e nella morte.
“…Quando si parla di me come di un poeta civile, io spero non si alluda tanto al fatto che mi sono a volte schierato politicamente e ho assunto degli atteggiamenti, appunto, in campo civile e politico.
Spero che invece ci si riferisca al fatto che questo tentativo di salvare il senso del passato e del presente – comunque della storia degli uomini – dentro l’immagine di una città, e dentro anche la propria stessa immagine e storia personale, ecco, questo tentativo sia diretto ad evadere da una dimensione puramente lirica, cioè quella in cui si dice io, o al massimo si dice tu (perché ci si rivolge a un tu), per accennare e costruirne un’altra che implichi un noi, come collettività di vivi e anche di morti.
Questa idea della comunità umana come comunità fatta di vivi e di morti è una delle cose che mi stanno più a cuore e che quindi si riflette con maggior frequenza in quello che scrivo.
Io credo che l’aver emarginato o rimosso l’idea della morte rischi di rendere la vita del tutto insensata. (…) La morte è qualcosa che fa parte della vita, la completa e le dà senso. Questo nel mondo di oggi è veramente cacciato in qualche angolo come se bisognasse dimenticarlo e non si potesse vivere con questa immagine di fronte. E invece, secondo me, è vero il contrario: non si può vivere senza questa immagine di fronte.
(…) Ho cominciato a riflettere sulla morte dal racconto evangelico, su quella di Cristo, poi sulla morte dei miei, sulla morte che ha colpito molto presto la mia vita con la scomparsa prima di mio padre e poi di mia madre, di persone care, di riferimenti indispensabili. (…) Poi col tempo, credo naturalmente, è diventata la riflessione sulla mia morte, su che cosa significa, che cosa significherà; e direi che è diventata però, sempre più serena, nel senso che insieme alla riflessione sulla morte come traguardo che si avvicina, esperienza sempre più prossima, si è fatta sempre più forte in me l’idea della comunione dei vivi e dei morti, per dirla in modo sintetico.
Cioè, non faccio più molta distinzione tra vivi e morti, non soltanto nelle persone della famiglia ma nelle persone care, negli amici che a un certo punto scompaiono. Io non li sento, devo dir la verità, più lontani di quando erano vivi, e quindi mi si è fatta sempre più essenziale, sempre più cara l’idea che esiste non so se un aldilà o un aldiqua o un dentro-di-noi in cui i morti continuano a vivere con noi.
(…) Mi riconosco in questa cultura e visione ormai quasi scomparsa ma irrinunciabile per me. Ma è anche una storia di affetti. Non potrei vivere senza la sensazione che da qualche parte le persone che mi sono state care sono ancora raggiungibili in qualche modo; questa è per me un’assoluta esigenza, non è una fede. Devo pensarlo, devo crederlo. Sullo stesso piano dove sono le poche persone ancora vive che mi stanno a cuore.” (Giovanni Raboni)
“(…) Così è potuto accadere che la morte diventasse negli ultimi quindici anni circa della poesia raboniana una sorta di punto di vista sulla vita, di illuminante, quasi confortante specola per assaporare il tempo.
C’è la consapevolezza in tutto questo lembo estremo del lavoro di vivere in una sorta di prolungamento, di rinvio. E che tutto, anche quel che più duole e pare immedicabile, si potrà come schiarire, mostrare nella sua evidenza prima illeggibile, con la fine della corsa.
Qualcosa come una strenua dolcezza, un confortato senso di appartenenza prende corpo e parola nei libri ultimi, grazie all’accettazione della morte.
E, sia detto bene, non della morte in quanto principio astratto, generico, ma della propria morte.
È essa, la sua attesa, il suo mistero pulsante e tenace, a gettare sul reticolo indecifrabile della vita un lampo di chiarezza e di amore pieno, di pietà e di riconoscimento, di riconoscenza anche. Perché il limite e il termine tolgono la vanità e la dissipazione del vivere e concedono consistenza e senso alla vicenda, permettono tensione verso la verità, concentrazione e pietas.
(…) La mitologia dei cari morti (il padre, la madre) in attesa oltre la cortina del tempo, al riparo dalla ripetizione della vita, in qualche modo salvati nel loro nucleo più intimo e profondo, ha impegnato il poeta nelle due raccolte forse più decisive del suo percorso, Ogni terzo pensiero e Quare tristis.
La coesione di una forma la cui disciplina permetteva di dire ormai tutto, senza tema di sentimentalismi o di derive retoriche, ha concesso al poeta di costruire una leggenda della vita protesa verso la ricongiunzione con i morti che è, credo, una delle grandi acquisizioni della poesia italiana contemporanea”. (Daniele Piccini)
Dopo la vita cosa? Ma altra vita,
si capisce, insperata, fioca, uguale,
tremito che non s’arresta, ferita
che non si chiude eppure non fa male
– non più. Non tanto. (…)
[Gli scritti di Giovanni Raboni son contenuti nel “Meridiano” L’opera poetica, a cura di Rodolfo Zucco, Mondadori, 2006]