
Siamo reduci dalla visione di Conclave di Edward Berger, basato – con poche variazioni nell’intreccio – sull’omonimo romanzo di Robert Harris. Premessa puramente di carattere estetico: potreste anche evitare di vedervelo, questo film, senza averne poi troppi rimorsi (lo spettatore con il pallino dell’urbanistica e dell’architettura si potrà comunque divertire, notando per esempio come il colonnato del Museo della Civiltà Romana, all’EUR, sia stato impiegato per “sostituire” quello del Bernini, in piazza San Pietro).
A suo modo, però, Conclave si discosta un poco dal genere complottistico che – come ne I sotterranei del Vaticano di André Gide o in Angeli e demoni di Dan Brown – fa della curia romana una mera sentina di brutture e scelleratezze. Intendiamoci: non è che la maggior parte dei cardinali di Conclave, chiamati a eleggere un nuovo Papa dopo la morte inopinata di quello precedente, si comporti bene nel corso della vicenda; al centro del racconto sono verità taciute, complotti e smanie di potere.
“La Chiesa non è la tradizione, non è il passato. La Chiesa è ciò che faremo d’ora in avanti”
Verso la fine, però, l’apertura di una breccia nel soffitto della Cappella Sistina e il soffio del vento che vi penetra paiono alludere alla chance di un nuovo inizio, al di là dei peccati e delle meschinerie dei suoi rappresentanti, per l’istituzione-Chiesa. La sconfitta del reazionario Goffredo Tedesco (interpretato da Sergio Castellitto in toni talmente sopra le righe che il personaggio riesce quasi simpatico) e l’elezione con il nome di Innocenzo XIV dell’arcivescovo di Kabul cardinale Vincent Benítez (per così dire, nato e cresciuto con una particolarità anatomica) lasciano infatti sperare nell’avvento di una Chiesa più «liberale» – termine spesso ripetuto nel film -, ovvero più tollerante, in maggiore sintonia coi tempi, rispettosa delle altre religioni e delle scelte di vita delle persone (un attimo prima della votazione decisiva, Benítez aveva replicato così a una tirata di Tedesco sulla necessità di una nuova crociata contro l’Islam: «Quando dice che dobbiamo combattere, contro chi dovremmo farlo? La lotta sta qui dentro di noi. La Chiesa non è la tradizione, non è il passato. La Chiesa è ciò che faremo d’ora in avanti»).
Qualche critico schierato su un fronte minoritario – perché la maggior parte delle recensioni di Conclave è stata decisamente positiva – ha affermato che questo breve discorso pare scritto con ChatGPT. Giudizio troppo duro? Insomma. Non è però qui, secondo noi, il punto. Si può senz’altro condividere l’auspicio che la Chiesa cattolica, resistendo al desiderio nostalgico di ripristinare un passato regime di cristianità, adotti recisamente un atteggiamento di «dialogo» con il mondo contemporaneo (e a questo fine un sant’uomo come Benítez-Innocenzo XIV sarebbe molto più funzionale di un Tedesco novello Torquemada).
Avviando un dialogo, però, si presuppone che ognuno degli interlocutori abbia – o perlomeno ritenga di avere – qualcosa da dire, un contributo da portare. Che cosa avrebbe da comunicare, effettivamente, una Chiesa in tutto e per tutto «innocenziana» agli uomini e alle donne del nostro tempo? Perché la tolleranza, il rigetto della violenza, un senso di solidarietà con i soggetti più fragili sono attitudini encomiabili, ma non peculiari di coloro che si dicono cristiani. Qualche tempo fa, su Avvenire, il teologo Pierangelo Sequeri aveva segnalato una sorta di asimmetria, nel mondo cattolico, tra l’impegno pratico e la capacità di «pensare la fede», rendendo ragione della propria speranza, in senso teologale (la diagnosi stilata da monsignor Sequeri sullo stato attuale del cattolicesimo italiano si riassumeva in una battuta impietosa: «Molta morale, poca comunità, zero cultura»).
Il teologo Sequeri afferma che nel cattolicesimo di oggi c’è “molta morale, poca comunità, zero cultura”
Da parte sua, il filosofo Silvano Petrosino ha segnalato il rischio che, privilegiando sempre e comunque la dimensione della prassi, si finisca col fare un uso ideologico della stessa categoria della «testimonianza» («A furia di separare i testimoni dai maestri – scrive Petrosino -, continuando ad esaltare la concretezza dei primi e a denunciare l’astrattezza dei secondi, gli stessi testimoni sono diventati muti e irriconoscibili: anche quando ci sono, nessuno se ne accorge; magari li si ascolta ma nessuno più parla di loro perché nessuno più è in grado di parlare di loro»). Proviamo a dirla diversamente, correndo magari il rischio di cadere in una forma di neo-fondamentalismo: non ci è forse richiesto oggi, oltre a uno stile di vita non troppo schizofrenico, non troppo difforme da quanto prescrive il Vangelo, anche uno sforzo di riflessione, di studio sugli antichi contenuti del racconto cristiano? Di tornare a investigare il possibile significato delle parole «Dio», «creazione», «salvezza», «vita eterna»?