“Non sono fascista, sono un uomo di mare!” urla il comandante Todaro a chi, pur salvato da lui, gli rinfaccia l’appartenenza politica. E come uomo di mare, applica la legge del mare appunto, che gli impone di salvare i naufraghi. Anche se sono nemici e c’è la guerra.
La tematica è quanto mai attuale: pensiamo infatti ai migranti e alle loro tragedie a noi contemporanee, benché in tempo di pace!…
La storia vera cui si ispira questo bel film di Edoardo De Angelis, ben costruito e dalla narrazione intensa ed empatica, data invece all’ottobre 1940.
Ha per protagonista il comandante sommergibilista Salvatore Todaro (interpretato da Pierfrancesco Favino, bravissimo come l’intero cast), che ha rinunciato a una tranquilla vita di pensionato, per una lesione alla colonna vertebrale dovuta a un incidente su un idrovolante, per seguire la sua passione, il mare, là dove “le trincee sono invisibili e il nemico è lontano, protetto da strati di acqua e di acciaio”.
Una tavolozza di sentimenti e situazioni, una lunga serie di affreschi toccanti e intensi
E’ per l’Italia il primo anno di guerra e il sommergibile Cappellini – ricostruito senza risparmio in una copia pressoché identica con il suo scafo di acciaio lungo 73 metri e con il peso di 70 tonnellate – naviga nell’Atlantico. Comandante è Todaro, siciliano di nascita ma cresciuto a Chioggia, circondato da un intero equipaggio che fa da filtro della realtà storica attraverso il proprio sguardo, il sentire, le voci, fatte di accenti diversi, dialetti e paure.
E infinite sono allora le sfumature della vicenda, una tavolozza di sentimenti e situazioni, una lunga serie di affreschi toccanti e intensi, ma a volte anche simpatici e divertenti.
Nel rappresentare la cruda quotidianità della vita nel sottomarino, il film affida al cibo la speranza di una esistenza migliore, di una felicità lontanissima eppure tangibile. Addirittura, le pietanze recitate come un mantra durante i titoli di coda ci trasportano in un mondo in cui non c’è spazio per la guerra.
Ma la guerra purtroppo c’è, e si palesa un giorno con il Kobalo, sommergibile di nazionalità belga, allora neutrale, ma carico di materiale bellico destinato all’Inghilterra, che apre il fuoco contro gli italiani. Todaro riesce comunque ad affondare il mercantile nemico, ma salva i 26 naufraghi belgi per sbarcarli nel porto più vicino e sicuro ( baia di S. Maria delle Azzorre), come prevede la legge del mare. Perché? Gli domanda il comandante belga. “Perché noi siamo italiani”- risponde Todaro, con una frase lapidaria che resterà nella storia a sancire il valore del soccorso come fondante l’identità italiana.
Il nemico inerme infatti non è più un nemico, ma è solo un altro uomo, e allora va salvato. E, come dice il Talmud, “chi salva un solo uomo salva l’umanità”.
Affondare il ferro, ma salvare l’uomo
Questa è la legge del mare, che Todaro decide di seguire, affondando il ferro, da bravo militare, ma salvando l’uomo.
Strano e fuori dagli schemi il suo personaggio, un giusto che pratica lo yoga, limita la morfina per i dolori alla schiena e crede nella mitologia greca. Insomma, un moderno Sisifo che trasporta il masso, si sacrifica e accetta il proprio destino. E che, come dice un trafiletto alla fine del film, morirà due anni dopo, durante uno scontro bellico, e, come aveva previsto,nel sonno.
Sempre circondato da quel suo amatissimo mare, dove le trincee sono invisibili, i funerali frugali e le croci di corallo.