Nello spazio antistante la Cappella del Crocifisso nel Duomo di Bergamo si trova, un poco ignorata, una statua dello scultore bergamasco Giacomo Manzù: l’iscrizione sul basamento di pietra ci dice che raffigura San Carlo Borromeo.
La collocazione dell’opera non appare molto appropriata, perché la scultura sembra incongrua e dissonante con quanto la circonda; probabilmente anche la somiglianza fisica non è per nulla rispettata se la tradizione ci parla di San Carlo come uomo alto e piuttosto corpulento e noi ci troviamo innanzi, raffigurata nel bronzo, un’esile figura ascetica. Tuttavia, la qualità di questo lavoro è tale da cancellare immediatamente qualunque obiezione o perplessità: la scultura, vibrante e magnetica, subito ci cattura: questo bronzo è materia spirituale e viva.
Il corpo leggermente inclinato in avanti nel panneggio dalle linee essenziali, la semplicissima mano che regge la veste, il viso affilato proteso come una prua ad assecondare la tensione del corpo, che esplicita la sollecitudine interiore. Nessuna espressione bonaria o sdolcinata cui ci hanno abituato alcune iconografie di santi.
Quest’opera di concentrata spiritualità è posta, come si ricordava, all’ingresso della Cappella dove a volte viene celebrata l’Eucarestia nei giorni feriali della settimana. Quasi un guardiano o custode che accoglie e invita.
Ci ha rammentato un altro grande lavoro di Manzù all’ingresso e sulla soglia di un differente luogo della cristianità: laPorta della Morte di San Pietro in Vaticano.
La porta ha avuto una storia lunga e dolorosa, occupa il periodo centrale della maturità dell’artista: più di quindici anni, dal 1947 agli inizi del 1964, ebbe interruzioni, molteplici ripensamenti, ci fu nel frattempo la realizzazione di un’opera parallela, la porta per il Duomo di Salisburgo, che di essa fu una sorta di prova generale, sia favorendo la messa a fuoco di iniziali intuizioni, sia alimentando pensieri nuovi che poi si sarebbero concretizzati.
Tante le vicissitudini esterne che hanno accompagnato il percorso realizzativo: il primo e il secondo concorso, le pastoie ecclesiastiche con le consuete ottuse resistenze, il progressivo sminuirsi dell’importanza dell’opera vista l’assegnazione non prevista di altre porte della basilica ad altri artisti.
Ma il tormento maggiore non è venuto dall’esterno ma proprio dall’opera in sé, nata diversamente nell’animo dell’autore e portata a compimento in condizioni radicalmente mutate che ne hanno trasformato del tutto il valore simbolico. L’aver tenuto duro e perseverato fino alla realizzazione, in mezzo a tanti ostacoli, dev’essere stato quasi il compimento di un voto da parte di chi, avendo trascorso un’infanzia grama presso un chiesa (con il padre, quasi sacrestano, morto in grande difficoltà), era progressivamente, faticosamente arrivato al successo e alla fama.
Nella parte interna, sotto al bassorilievo che attraversa i due battenti della porta con la lunga teoria dei cardinali conciliari, c’è la dedica, iscritta nel bronzo, all’amico don Giuseppe De Luca, morto prima del compimento di quell’opera da lui fortemente patrocinata e sostenuta. E l’indimenticabile amico è raffigurato, in modo commovente, mentre esce di scena contro corrente, a sinistra, sfilandosi dalla fila dei cardinali, dopo aver terminato il suo servizio e la sua vicenda terrena.
La porta, che originariamente doveva rappresentare Il trionfo dei Santi e dei Martiri, è diventata la Porta della Morte mentre un’altra morte si è interposta tra il suo compimento e la fine: quella di Papa Giovanni XXIII che la voleva ad apertura di quel concilio che avrebbe trasformato la vita della Chiesa.
Fu proprio papa Giovanni che concesse allo scultore di seguire la propria ispirazione trattando i temi universali della sofferenza e della violenza in una visione certamente sacra ma allo stesso tempo ampia e laica, capace di guardare a ogni uomo secondo lo spirito evangelico che il Concilio desiderava rinnovare.
La trasformazione del soggetto ha comportato un netto mutamento iconografico: la morte, condizione ultima e irremovibile oltre la quale procede solo la fede, è posta sulla soglia del tempio che quella fede simboleggia e custodisce. Un artista consapevole comprende che il tema esige un confronto radicale, in totale sincerità e spogliazione di sé, e il percorso che ha portato dai disegni e bozzetti iniziali all’esito conclusivo appare davvero anche un impegnativo cammino spirituale dove forma e contenuto si fanno sempre più rarefatti, densi, essenziali, tesi a significare il dramma della morte, che sempre interpella l’uomo.
La lunghissima elaborazione si è poi condensata in soli due anni di lavoro quasi furioso nel quale le prime rigide costruzioni formali si sciolgono e vengono sostituite da soluzioni di grande respiro e libertà, segnate dall’irruenza improrogabile del tocco, del gesto, dell’impronta, dell’incisione della stecca nella creta, nel segno del polpastrello che informa di sé la superficie a sancire per sempre la freschezza dell’ispirazione e della realizzazione immediata.
La porta di bronzo misura cm 765 x 365. La morte di Maria e la morte di Cristo sono raffigurate in alto, nei bassorilievi sui battenti esterni di sinistra e di destra, in formelle allungate, sfrangiate e senza cornici, di grandi dimensioni perché siano pienamente leggibili all’osservatore anche dal basso.
Due picchiotti quasi a tuttotondo con tralci di vite e fasci di spighe separano poi queste grandi figurazioni da quattro formelle sottostanti, più piccole, su ogni battente: a sinistra la morte di Abele, di Giuseppe, di Giovanni XXIII e la morte per violenza; a destra la morte di Stefano martire, di Gregorio VII, la morte nell’aria e sulla terra.
Chiudono, in fondo ai battenti, sei meravigliose sculture di animali a confermare che ogni aspetto della natura partecipa di questo teatro e combattimento sulla scena del mondo: un uccello morto, il ghiro, un riccio, la civetta, la tartaruga che combatte con la serpe, il corvo.
I protagonisti della storia sacra si fanno compagni dell’umanità di ogni tempo insieme alla quale vivono la prova più difficile e ineluttabile: la violenza patita da Cristo è la violenza sofferta da ogni uomo, il dolore e lo strazio di Maria sono quelli di ogni donna, e il martirio dei santi si replica nelle infinite torture della storia.
L’artista si mette subito in sintonia con lo spirito conciliare che vuole la Chiesa capace di abbracciare tutti gli uomini senza distinzione. Ricordiamo la temperie sociale e politica di quegli anni in un mondo uscito dalla guerra che vedeva il confronto tra ideologie, la guerra fredda, le rivendicazioni delle classi povere verso una più autentica giustizia sociale, l’affacciarsi dei movimenti pacifisti e di lì a poco di quelli studenteschi con le loro fresche aspirazioni, le loro turbolenze e le loro derive. A tutto questo il Concilio rispondeva con i suoi ispirati documenti che a distanza di anni non sono ancora compresi e tradotti nelle loro istanze più profonde, nonostante l’urgenza che li contraddistingue. Il semplice e silenzioso artista bergamasco, invece, tale urgenza comprendeva bene e di essa si metteva in ascolto, istintivamente: bisogno e anelito di ogni cuore.
Attraverso il travaglio e la lunga gestazione piena di ostacoli cui abbiamo accennato, egli approda a una felicissima soluzione formale, che ci pare l’intuizione principale alla base dell’intera opera.
La superficie di bronzo diventa una sorta di membrana o cortina mobile e permeabile, in cui i corpi si offrono emergendo a tratti per poi sparire riassorbiti da quella che non è più rigida materia ma rarefatta, mutevole distesa leggera e transitabile. L’assenza di cornici e rigidi inquadramenti delle scene e formelle (che comparivano nei primi progetti) è logica conseguenza di questa definizione spaziale; un unico respiro e atmosfera compenetrano osmoticamente questo grande mondo figurato: vesti, corpi, oggetti, vuoti, pieni…
Prendiamo come esempio la morte di Maria: gli straordinari bozzetti preliminari hanno prodotto uno scandito, misurato volo d’angeli, immateriali e lievi (la veste sembra aver sostituito il corpo) ma insieme compiutamente reali e veri della loro presenza spirituale, essi scendono come foglie o piume, come solleciti sogni desiderosi di stringere e toccare Maria abbandonata nel sonno.
In questa nuova annunciazione e visita celeste, la donna pare offrire all’angelo il braccio disteso, per essere portata al suo risveglio. La formella è costruita sull’andamento delle tre grandi figure che l’attraversano come onde; indimenticabile la figura di Maria: il volto è della massima essenzialità, dolce e commovente, vertice della scultura del ‘900.
Altrove il dramma e la violenza sono dichiarati e atroci:
nella morte nell’aria la rovinosa caduta scomposta e l’urlo della cieca bocca spalancata ricordano i coevi straziati dipinti di Bacon, il corpo appeso di Cristo si specchia nel corpo dell’uomo appeso della morte per violenza, fratello di tanti partigiani uccisi che segneranno negli anni il lavoro di Manzù,
così come la donna di spalle sotto la croce è compagna a quella che muore rovesciando all’indietro la sedia e la testa nella morte sulla terra, lasciando il figlio, disperato e piangente, che la scorge portando la manina alla bocca.
E poi i drammi del martirio e della morte di Stefano, di Gregorio VII, di papa Giovanni, di Giuseppe, ognuno con la propria silenziosa e terribile liturgia, il proprio dolente cerimoniale.
Ispirata invenzione e felice traduzione formale.
Bisognerebbe fermarsi con calma su ogni formella che compone la Porta, descrivere poi la straordinaria teoria di cardinali che attraversa i battenti interni, e minutamente scorrere tanti particolari e segni, rilievi e incisioni, grumi di materia, linee leggere, scavi, ferite.
Lasciamo che un poco ci aiutino le immagini e ci invitino forse a un viaggio per riscoprire un grande lavoro della scultura moderna, la più bella tra le porte di San Pietro, che certamente non sfigura in mezzo a tanta arte barocca che la circonda e riconduce anzi il pensiero alla semplicità e purezza della migliore scultura italiana del ‘400.
Sulla soglia del tempio di Pietro uno scultore bergamasco si è confrontato col pensiero della morte, la porta che ogni uomo attraversa, e ci ha consegnato un’opera potente, tragica e dolce, che sgomenta e insieme dà respiro, penetrando la verità umana come, a volte, sa fare l’arte; così che anche l’intenzione originaria di raffigurare il trionfo dei santi e dei martiri ci pare comunque realizzata, in maniera interiore, profonda e compiuta.