Dura 117 minuti, è tutto ambientato in un carcere tetro e fatiscente, il dialogo tra i personaggi è scarno, breve e sotto tono, ma quanta ricchezza di sfumature e sentimenti in questa pellicola, la cui cifra sono appunto la misura e l’essenzialità… Misura e essenzialità anche degli attori, tutti bravissimi, a partire, naturalmente, dai protagonisti: Toni Servillo e Silvio Orlando, l’uno come ispettore capo dei secondini, l’altro come camorrista intelligente e acuto, ormai arrivato a fine pena.
La trama è molto semplice: un isolato carcere ottocentesco è in dismissione, i vari reparti sono ormai chiusi, quasi tutti i detenuti trasferiti, ma nonostante questo 12 di loro, controllati da una manciata di agenti (la direttrice è stata mandata altrove), devono rimanervi ancora per un tempo indefinito. Si crea così un universo sospeso, una sorta di limbo con un’atmosfera particolare e di continua attesa, percorso da una tensione elettrica, palpabile, e collocato dentro un tempo e uno spazio quasi irreali, che fanno pensare al “Deserto dei Tartari” di Buzzati.
Le regole e le consuetudini del carcere vengono riformulate, tra sospetti, diffidenze, incomunicabilità tra le due parti, spigolosità. Ogni istante la tensione latente sembra poter esplodere, far scoccare la rivolta. Ma l’arrivo del giovane Fantaccini, tredicesimo detenuto, fragile e tormentato dal rimorso per un suo ennesimo scippo risoltosi in tragedia, farà da catalizzatore tra ispettore e camorrista, avvicinando poi in maniera inedita agenti e prigionieri e facendo crollare il muro che li divide.
Emerge alla fine la loro natura di uomini, pur in questo contesto in animazione sospesa, in cui ognuno deve però rivedere e riconsiderare il proprio ruolo
Emerge insomma, alla fine, la loro natura di uomini, pur in questo contesto in animazione sospesa, in cui ognuno deve però rivedere e riconsiderare il proprio ruolo. Le regole allora sfumano e i confini tra guardie e detenuti si fanno più sottili, dando vita a compromessi, scambi e nuove forme di relazioni interpersonali, fondate sull’umanità e il “prendersi cura”, sui valori universali della socialità, della convivenza e dell’agire collettivo, che risultano addirittura amplificati e diventano macroscopici nella struttura chiusa e claustrofobica del carcere.
Perché proprio il carcere è carcere per tutti (guardiani e detenuti): in prigione la compassione, l’affetto, l’umana pietà per il prossimo e l’amicizia sono sentimenti tutt’altro che estranei. Anche se a far loro da schermo sono diffidenza, violenza e paura.
Questa pellicola non comune diventa così un’opera corale, uno spaccato di umanità, animato da varie prospettive. Un’opera profondamente sentita che inscena un gioco elegante di destini e sentimenti che si incrociano.
Servillo e Orlando, due straordinari protagonisti
I due interpreti principali sono davvero straordinari, in scena insieme per quasi tutto il film, anche se pilastri di un racconto che non si limita a loro, ma si apre, come abbiamo detto, sempre più alla coralità. I loro personaggi rimangono comunque i poli magnetici del film, quelli che meglio di tutti capiscono la situazione e come si devono comportare, trovando terreni comuni a forza di strappi, contrasti psicologici, sporadici duelli verbali dai toni bassi e compressi. E anche la recitazione è liscia, senza istrionismi o esagerazioni: due attori in forma smagliante che fanno a gara di bravura, rimanendo sempre sotto le righe, ma senza mai perdere un colpo.
La regia di Di Costanzo è giocata peraltro sulla sottrazione, sempre cioè in levare, tuttavia mantenendo tutto sotto controllo.
Tema fondamentale del film è l’assurdità, lo spaesamento del carcere: ce lo dicono le immagini, ancor prima del racconto. Il regista crea infatti un’architettura emozionale che sembra vivere e respirare insieme con gli individui che la abitano, grazie alle inquadrature interne ed esterne che sottolineano il vuoto e l’abbandono di quelle strutture carcerarie fatiscenti. Contribuiscono anche le scelte musicali di Pasquale Scialò, che accompagnano e sottolineano senza mai prendere il sopravvento sulle emozioni.
Per come la vede il regista, quindi, il carcere è un luogo assurdo. Dove, come dice il titolo, l’aria è ferma e immutabile.
Il carcere diventa metafora per ragionare sul senso collettivo dell’isolamento e della reclusione
Perché alcuni stanno dietro le sbarre, altri no, ma in fondo il carcere è carcere per tutti. Anche per noi, e allora diventa metafora per ragionare sul senso collettivo dell’isolamento e della reclusione come sentimenti universali.
E’ carcere, cioè, anche quello che noi viviamo, sempre alle prese con settarismi, rivalità, paure, divisioni, intransigenze. E sempre, invece, bisognosi di contatto umano e di condivisione anche con chi, di solito, consideriamo altro da noi.
Laura Cerri