
Anche il cinema parla di morte. E di nascita. E non poteva mancare di Pedro Almodovar. Il suo nuovo film (al Conca Verde) parla di nascita e, inevitabilmente, di morte. Le “madres paralelas” del titolo, compagne di gravidanza in una clinica di Madrid, partoriranno lo stesso giorno. Sono Janis (Penelope Cruz) ha 40 anni ed è una fotografa affermata e Ana (Milena Smit) un’adolescente qualunque.
Janis ed Ana sono donne che diventano madri dovendo fare i conti con la solitudine. È vero, accanto ad Ana c’è sua madre, ma è una madre che vorrebbe essere altrove. Pensa solo a seguire la propria carriera artistica: più sensibile al richiamo del teatro che al sentimento materno. E’ una donna che dopo aver messo al mondo la figlia si sente libera di poter mettere in scena la sua vita sulle assi del palcoscenico.
Janis è orfana di madre, sua madre era hippie e tossicodipendente (il nome è proprio in onore di Janis Joplin, artista di cui Ana ignora l’esistenza: beata gioventù che ignora il passato e quindi non ha bisogno di redimerlo). Janis è stata cresciuta dalla nonna in un pueblo agricolo della provincia spagnola.
Entrambe aspettano una bambina inattesa, Janis con gioia, Ana con spavento, perché nasconde un trauma del passato.
È un film “femminile” il cui l’uomo (talvolta sposato, ma non con la donna giusta) va e viene, quasi sempre fuori campo, in uno dei tanti altrove del cinema e della vita. Il film si apre con Janis che cerca il modo per aprire una tomba, vuole portare alla luce i resti del proprio bisnonno, assassinato ai tempi della guerra civile spagnola e gettato in una fossa comune rimasta dimenticata.
Insieme a lui sono sepolti nella stessa terra molti altri padri, morti per una causa nobile ma non per questo meno assenti dalla vita, dalla memoria delle loro donne. Il presunto padre della figlia di Janis (la relazione è stata fugace) è l’antropologo forense che si deve occupare dell’apertura della fossa comune.
Nel film si cercano i morti, morti che non sono mai stati trovati, che non hanno mai ricevuto il funerale, come se fossero andati via senza salutare. E si cercano, i morti, come si cercano i vivi, “sondando” una realtà troppo misteriosa.
Gli uni con i campioni rinofaringei per scoprire dal Dna i veri genitori di un bambino, gli altri con i metal detector per trovare quel che resta delle vittime del regime franchista.
L’ospedale nei film di Almodovar è davvero un luogo sacro. Non tanto perché è così vicino all’inizio e alla fine della vita, ma perché è appartato.
In “Parla con lei” (2002) la clinica si chiama “El Bosque” e Alicia, in coma da quattro anni in seguito a un incidente automobilistico, è la Bella addormentata nel bosco. L’infermiere che le parla, mentre lava il corpo e poi lo veste con qualcosa che richiama un sudario, un corpo inanimato, parla in realtà alla sua anima, per rianimare la vita prigioniera dentro il corpo.
L’infermiere è innamorato di lei e una notte corona a suo modo il suo sogno d’amore. Per questo sarà condotto in carcere, accusato di violenza nei confronti di Alicia, rimasta incinta. La donna perde il bambino, ma si sveglia dal coma. Benigno, pur avendole restituito la vita, è condannato dal tribunale e si suiciderà in carcere.
In un film del 2009, “Gli abbracci spezzati”, Almodovar sceglie come protagonista un regista, Mateo Blanco, che, diventato cieco, scrive romanzi. Un giorno un aspirante regista che si fa chiamare Ray-X gli chiede di aiutarlo a scrivere il suo film. La trama lo fa rabbrividire. Ray-X è il figlio di Ernesto Martel, potente uomo d’affari appena morto che anni prima gli aveva rubato la moglie, l’attrice Lena (Penelope Cruz).
Il cinema ha il potere di andare indietro nel tempo. Quando Mateo e Lena, in un momento di intimità sull’isola vulcanica di Lanzarote, guardano alla televisione un vecchio film italiano, quel che vedono è una scena che si rivelerà “miracolosa”.
Il film è “Viaggio in Italia” (1953) di Roberto Rossellini. Racconta di una coppia di ricchi inglesi (George Sanders e Ingrid Bergman) il cui matrimonio è di fatto finito, lo loro vite scorrono come binari, vicini ma paralleli, distanti. Quando hanno già deciso di divorziare visitano gli scavi archeologici di Pompei e si imbattono nella riesumazione di una coppia sepolta viva dalla lava, i due corpi pietrificati sono ancora abbracciati nell’amore. Lei è sconvolta dalla visione. I due inglesi risalgono in automobile e vengono coinvolti, in realtà quasi travolti dalla processione che si snoda lungo la strada di Maiori: la folla di fedeli li allontana e fa temere per la loro vita prima di ricongiungerli in un abbraccio finale che lascia pensare a un lieto fine. Amore e morte non sono mai stati così vicini.
Su un muro de “Gli abbracci spezzati” si intravedeva la locandina di un film scritto da Mateo Blanco: si intitolava “Madres paralelas”.