Come detto, secondo papa Francesco, le omelie oggi sono: 1) verbose; 2) astratte; e 3) soprattutto non incidono sulla vita dei fedeli.
Occorre a mio avviso innanzitutto evidenziare che le omelie molto spesso sono troppo lunghe, ben più degli otto minuti raccomandati dal papa: è come se, inconsciamente, si cercasse di compensare la bassa qualità del messaggio trasmesso con la quantità delle parole pronunciate (la “diarrea delle parole” come dice Gisbert Greshake in “Chiesa dove vai? Guardare al futuro in prospettiva real-utopistica” recentemente pubblicato anche in Italia).
Come se dietro tale atteggiamento vi fosse la convinzione che più cose dici più si speri che qualcosa rimanga. È esattamente l’opposto! e lo sanno bene gli esperti di marketing: un messaggio per essere efficace deve essere sintetico, conciso, ed è qui che si cela la fortuna degli slogan pubblicitari!
La riforma conciliare, soprattutto grazie all’introduzione delle lingue parlate, se da un lato ha prodotto il grande risultato di promuovere efficacemente la partecipazione attiva dei fedeli, relegati un tempo più a spettatori che ad attori, dall’altro ha però di fatto consentito che la messa perdesse il carattere fondamentalmente rituale, liturgico, sacramentale per sviluppare in modo eccessivo l’elemento didascalico (alcuni liturgisti hanno anche espresso dubbi sulla opportunità della terza lettura).
In questo stesso blog si è scritto: “esiste una specie di identificazione di fatto fra la messa e l’omelia” e questo significa tradire lo spirito della liturgia: in un certo modo, la messa si è un po’ trasformata in una specie di conferenza in un contesto liturgico (una messa che sa “di protestante” secondo alcuni polemici).
Questo processo credo derivi anche dalla nostra attuale cultura influenzata dalla visione illuminista, razionalista, materialista, che esige che tutto sia spiegato, dimostrato, tradotto (penoso ascoltare a Natale l’Adeste fideles in italiano), esplicitato, anche a costo di drammatiche semplificazioni: c’è poco spazio per ciò che, in senso molto lato, supera i confini del razionale come appunto il simbolo, il non detto, il silenzio, la meditazione, il rito, la pausa, insomma la liturgia: non a caso la poesia è diventata la cenerentola della nostra letteratura.
Tale processo, che definirei in termini di sviluppo come “patologico”, trova conferma anche nella parte dedicata agli avvisi a fine celebrazione: il fedele che ha appena ricevuto il Corpo di Cristo, mentre ancora è raccolto in adorazione, si trova presto distratto, anzi disturbato, da avvisi relativi agli eventi più disparati: dalla gita dei ragazzi del GrEst alla castagnata in cascina o alla raccolta fondi per riparare l’impianto di riscaldamento della sala giochi dell’oratorio; tutti argomenti che nulla hanno a che vedere con l’evento liturgico il quale risulta così ulteriormente svilito.
Tempo fa, al termine della messa, ho garbatamente fatto notare al celebrante che forse aveva un po’ esagerato con una certa sfilza di avvisi: mi è stato candidamente risposto: “è vero, me ne rendo conto! Ma se io non dico queste cose a messa, quando le dico? La messa è l’occasione in cui posso raggiungere il maggior numero di parrocchiani”. Qui però si aprirebbe un altro bel tema, ossia della comunicazione all’interno della Parrocchia
Per non parlare di quel “buona settimana” o saluti simili che il celebrante pronuncia a messa conclusa, quasi fossimo ad un evento televisivo; mi pare anzi di percepire in tale battuta un’ansia di liberarsi di un clima troppo serio, troppo impegnativo come invece è il rito.
Abito a Milano e, come forse molti sanno, nel rito ambrosiano la messa si conclude, dopo la benedizione, con la monizione del celebrante “Andiamo in pace” a cui l’assemblea risponde “nel nome di Cristo”. Ma come può un saluto così ricco di significato essere svilito da un immediatamente successivo “buona settimana” a cui alcuni rispondono stancamente con un banalissimo “grazie altrettanto”, come se fossimo dal salumiere. Magari i cristiani si salutassero anche per strada dicendo “andiamo in pace” e “nel nome di Cristo”! Che bella la tradizione ortodossa del mattino di Pasqua dove la gente per strada porge il saluto dicendo “Christos anesti” a cui si risponde “alithos anesti” ossia Cristo è risorto: è veramente risorto! (una proposta: se proprio si ritenesse così importante mandare i saluti perché non farlo in chiusura degli avvisi).
Detto questo, credo sia necessario andare dritti al cuore del problema, ossia ritrovare lo spirito della liturgia (tanto per echeggiare il titolo di due fondamentali, ma, a quanto pare, poco conosciute, opere rispettivamente di Romano Guardini e di Joseph Ratzinger).
Da quando sono in pensione qualche volta vado a messa durante la settimana. Nella mia parrocchia, a Milano, fortunatamente il celebrante dopo la lettura del Vangelo non pronuncia alcuna omelia e lascia un attimo di pausa per una breve riflessione personale: queste sono le messe per me più significative. Un po’ dipenderà anche dal contesto raccolto (di solito ci sono tra i 20 e i 30 fedeli); un po’ dal fatto che la messa feriale è più breve (dura circa la metà della messa domenicale) e quindi è possibile mantenere costante l’attenzione. Ma io credo che ciò dipenda soprattutto dal fatto che, senza l’interruzione dell’omelia, la messa risulti più autentica, il rito unitario, concentrata sulla dimensione orante, sacramentale, e quindi possa essere meglio partecipata interiormente. Per di più lo stesso Prefazio, se ben proclamato e attentamente ascoltato, offre una ricapitolazione, un distillato, una sintesi straordinaria di altissimo contenuto dell’annuncio centrale della celebrazione, senza bisogno di altre (talvolta improvvisate) parole.
Mi pare infine importante sottolineare come un’omelia prolungata non solo spezzi l’azione liturgica, come lo è da avvisi impropri o da saluti finali estemporanei, ma finisca altresì per alterare l’equilibrio della messa stessa, nello spostarne il vero focus, l’Eucarestia, nell’annacquare e svilire, impoverire, quasi snaturare l’evento stesso.
Jon Fosse, premio Nobel per la letteratura 2023, il 5 giugno scorso è venuto a Milano e, in una intervista rilasciata a Giulio Silvano (https://www.rivistastudio.com/jon-fosse-intervista/) ha sottolineato l’estrema importanza che nelle sue opere ha il ritmo, anche attraverso un uso studiato delle pause: in tale contesto ha poi, tra l’altro, aggiunto:
Ma un incontro al mese dai quaccheri non era sufficiente, avevo bisogno di qualcosa di più, e sono finito nel cattolicesimo. Soprattutto perché mi piace molto la messa. E preferisco la messa in latino. E queste liturgie, queste ripetizioni… E ripetendo ti fermi davvero a pensare a quello che dici, ma si crea anche un silenzio a forza di ripetere.”