Le riforme della diocesi funzionano se il centro decide

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Il 16 settembre scorso si è riunita la “assemblea diocesana”. In precedenza avevano luogo due diverse assemblee, una per i preti e una per i laici. Questa volta si è trattato di una assemblea “unitaria”, comprendente cioè sia laici che preti. Don Goffredo Zanchi vi ha partecipato e ne valuta i limiti sulla sua competenza di storico della Chiesa

Sinodo, Comunità Ecclesiali Territoriali (CET) e loro riforma

L’assemblea del 16 settembre aveva all’ordine del giorno due temi principali. Uno riguardava l’attività degli incontri avvenuti nella nostra diocesi nella prima tappa del cammino sinodale dedicata all’ascolto. I temi emersi negli incontri diocesani sono stati sintetizzati a livello nazionale. Essi richiamano quelli elaborati dai nostri incontri diocesani, riprova di problematiche comuni ed esigenze diffuse. Il prossimo anno pastorale sarà dedicato alla fase sapienziale e di discernimento. 

Le CET hanno funzionato poco. Scarsi i collegamenti con le parrocchie

Parallelamente si è trattato del programma pastorale diocesano imperniato sul rilancio delle CET (Comunità Ecclesiali Territoriali). A giustificazione della loro riuscita solo parziale, sono state riconosciute le difficoltà, attribuibile per la maggior parte allo scarso collegamento tra il mondo della parrocchia e quello delle Comunità territoriali. Il rilancio è affidato alla ristrutturazione del Consiglio Pastorale territoriale che allarga i propri ambiti fino a comprendere una serie di attività parrocchiali. 

Questo esige una ridefinizione della composizione del Consiglio pastorale territoriale con la partecipazione di clero e laici. Si tratta di una novità di un certo rilievo, che verrebbe meglio compresa se fosse stato distribuito nell’Assemblea il nuovo regolamento delle CET. Il ritardo sembra dovuto anche alle problematiche attinenti alla sfera canonica, per la conflittualità tra i diritti della parrocchia e del Consiglio Pastorale territoriale. La genericità con cui è stato presentato il nuovo progetto sarebbe stata eliminata dalla presentazione e spiegazione del regolamento. 

E’ mancato il dialogo

 Ciò che rende maggiormente perplessi è la mancanza di confronto all’interno della nostra chiesa su questa nuova istituzione: non è stato presentato nessun bilancio di un’esperienza di cinque anni per un confronto approfondito da parte dei protagonisti. 

La riforma viene imposta senza dibattito. Aumenta lo scetticismo

Tutto questo si è verificato in un contesto di conclamata sinodalità, la quale comporta collaborazione, la conoscenza adeguata delle iniziative che si intendono adottare, momenti di ascolto e di franco confronto tra visioni diverse, da effettuarsi nella carità e nel rispetto dei vari ruoli ecclesiali e di chi ha la responsabilità della decisione finale. Il nuovo assetto delle Comunità territoriali viene dunque imposto senza un dibattito previo che aumenta lo scetticismo generale, poichè alla generalità del clero e dei laici è stata lasciata solo la possibilità di accettarlo a scatola chiusa.

Lo storico della Chiesa: le istituzioni locali non hanno mai cambiato la diocesi

      Vi è poi un secondo aspetto da rilevare. Le Comunità sono strutture territoriali che possono svolgere un utile lavoro di programmazione pastorale locale, ma non hanno le risorse per diventare il motore del rinnovamento diocesano, come ci si aspetta. La Chiesa italiana è chiamata a rinnovarsi profondamente per assolvere al compito della testimonianza evangelica nel mondo odierno. 

Come appare dalle sintesi nazionale e diocesana della fase di ascolto, sono emersi temi la cui complessità è superiore alle capacità di una CET: la figura del prete e la ridefinizione del suo ruolo, il volto di una parrocchia missionaria, l’annuncio della fede, la catechesi, la liturgia, la crisi della famiglia ecc. 

I problemi da affrontare sono enormi. Le CET non hanno le forze necessarie per affrontarli

I profondi cambiamenti culturali e le difficoltà dell’evangelizzazione sono stati lucidamente richiamati nella relazione di don Giuliano Zanchi. Mentre ascoltavo mi chiedevo se le CET avessero le capacità ed i mezzi per rispondere a queste esigenze. Come storico posso sostenere che negli ultimi quattro secoli non si è mai visto la realizzazione di una riforma della Chiesa, come oggi si esige, da parte dei soli organismi territoriali, senza il coinvolgimento del centro, cioè della diocesi nel suo insieme. 

Il Consiglio Presbiterale e il Consiglio Pastorale: i grandi dimenticati

Si ritiene che basti l’assistenza degli uffici della curia diocesana, che sono stati debitamente rafforzati. Mi sembra che anche questo sia ancora insufficiente. Occorre uno sforzo globale della diocesi in tutte le sue componenti per la formulazione di piani pastorali seri, della durata di qualche anno, che, oltre agli organismi territoriali, vedano in primo piano quelli previsti dal diritto canonico, come il Consiglio Presbiterale. Mi sembra che il suo ruolo sia sottovalorizzato nella nostra diocesi, quando il Codice di diritto canonico lo definisce il “Senato del Vescovo” [can. 495] dotato di voto consultivo, ma con l’invito al Vescovo ad “ascoltarlo negli affari di maggiore importanza”, consultazione però obbligatoria nei casi espressamente previsti dal diritto [can. 500 & 2]. 

I due organismi di consultazione diocesana sono il Consiglio Presbiterale e il Consiglio Pastorale. Le grandi decisioni si fanno senza di loro

Vi è poi il Consiglio pastorale, necessario per avere il polso del sentire dei laici. Tra le proposte della fase di ascolto del Cammino Sinodale è emersa la richiesta di un esame del funzionamento degli organismi partecipativi. Senza questa coralità, nella quale si realizza nei fatti la sinodalità, senza cadere in facili slogan, affidare gran parte del lavoro di riforma delle CET, presenta il rischio di ricorrere a provvedimenti occasionali ed insufficienti, senza una visione generale e dell’apporto determinate della cultura. 

Anche questo è una vera emergenza. Ci si preoccupa giustamente di strutture e regolamenti, ma non vi è altrettanta attenzione per la formazione teologico-pastorale del clero e dei laici, soprattutto quelli di coloro che partecipano agli organismi di governo. Questa necessità è ben emersa nella relazione di don Giuliano. Questo aspetto è imprescindibile per la necessità di avere operatori pastorali preparati e consapevoli, in grado di proporre una prassi pastorale illuminata e di approdare a qualcosa di valido. 

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Zanchi

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