La singolare potenza omiletica di Don Sergio Colombo si esprimeva anche con questa domanda, che piombava inaspettata nel bel mezzo di un discorso elevato e impegnativo sul rapporto tra fede e vita. Non era solo un espediente retorico o un intercalare inconsapevole. Al contrario, quella domanda era un modo di sottolineare l’urgenza del tema trattato. Era un modo per comunicare il messaggio che quel tema chiamava in causa proprio te, mettendoti di fronte alla responsabilità del discernimento.
Insomma: anche se non capivi proprio tutto, la cosa fondamentale era capire che in quegli argomenti, per quanto difficili potessero essere, era in gioco qualcosa di centrale per la tua vita.
Don Sergio Colombo era un fine intellettuale, impegnato in una conversazione con grandi teologi e pensatori francesi, che aveva scelto di rimanere in servizio come parroco di periferia.
Spesso amava dipingersi come una sorta di curato di campagna che osservava il mondo da quelli che chiamava i “venti metri di strada” di via Leone XIII, nel quartiere di Redona alle porte di Bergamo.
Chissà cosa avrebbe detto, lui che preferiva il profondo al vasto, di fronte al buffet di pensieri, idee, parole, opere e omissioni a cui siamo oggi perennemente esposti. Cosa avrebbe detto di fronte al frullatore rappresentato dalle piattaforme di comunicazione in cui i grandi temi complessi, inclusi quelli della vita, dell’amore e della morte, vengono appiattiti e sbriciolati in una valanga di parole in libertà, ispirate dalla frenesia di scrivere e giudicare prima ancora di avere capito.
Chissà se anche a lui talvolta sarebbero sconsolatamente cascate le braccia a fine giornata; oppure se, con lo stile tagliente che gli era proprio, avrebbe continuato a ripetere che bisogna amare il mondo per quello che è, sforzandosi di capirlo e di individuarne la linfa vitale. In altre parole, continuando a cercare le cose buone che continuano ad accadere anche quando non riusciamo a vederle e a sforzar di vivere il Vangelo da prete e da uomo, sempre
La colonna portante del pensiero di don Sergio Colombo è sempre stata una limpida e coerente adesione a una visione di Chiesa ispirata ai principii del Concilio Vaticano II. Anticipando con grande lucidità la fine del regime di cristianità integrale, ossia la fine di un’epoca in cui si era nominalmente cristiani solo perché era socialmente ovvio esserlo, don Sergio considerava gli snodi del vivere e del morire come grandi temi universali in cui si poteva vedere la tenerezza di Dio e il Vangelo all’opera.
In uno dei suoi ultimi scritti, quando ormai la malattia avanzava inesorabile, don Sergio parlava con grande franchezza della vertigine della discesa nelle regioni più oscure della nostra fragilità.
Proprio dall’esperienza della malattia e dell’approssimarsi della fine, egli ricavava non una visione pietistica e consolatoria della fede, ma un senso di gratitudine e di prossimità agli altri esseri umani: dalle regioni della debolezza e della paura in cui tutti passiamo sale “l’universale invocazione al soccorso e alla salvezza”.
In queste parole riecheggia uno degli argomenti ricorrenti della predicazione e delle riflessioni di don Sergio Colombo: la prossimità e la costruzione di relazioni come avveramento del Regno di Dio. Egli si riferiva a un Gesù Cristo profondamente innamorato di tutti gli esseri umani, a un Vangelo riletto come un messaggio di fiducia nella vita rivolto a tutti gli esseri umani, proprio a tutti. Proprio da lì discende e non può che discendere la necessità di tessere relazioni, costruire comunità e partecipare alla costruzione della città e della casa comune, in cui ogni essere umano possa vedere riconosciuta la propria dignità e il proprio diritto a esistere. Si tratta sempre, appunto, di vivere il vangelo da prete e da uomo, senza mai separare l’uno dall’altro.
Oggi, dopo Laudato si’ e Fratelli tutti, sembra quasi scontato affermarlo, ma negli anni Ottanta era radicalmente originale spiegare che l’attenzione ai temi della politica, dell’ambiente, dei cambiamenti sociali non erano un annacquamento della vita ecclesiale e della testimonianza evangelica. Anzi, era un modo più pieno e più maturo di vivere la fede, superando un’impostazione esageratamente rivolta ai rituali e alle forme dell’organizzazione gerarchica.
L’attenzione alla politica, alla sobrietà intesa come sostenibilità dei consumi e degli stili di vita, la sensibilità pastorale di fronte ai percorsi affettivi e familiari non furono per don Sergio Colombo una cessione furba alle mode del momento. Al contrario, ad alimentare il suo senso di urgenza rimase sempre la ferma convinzione che le forme storiche del cristianesimo potevano anche essere in crisi. Ma il Vangelo avrebbe trovato sempre un modo per parlare al cuore di ogni essere umano. Detto in altre parole, il Vangelo ha e avrà sempre qualcosa di profondo, qualcosa di vero, qualcosa di umano da dire e da dare al cuore di tutti gli esseri umani.
Il fine teologo, il predicatore, il riferimento carismatico coesisteva in don Sergio Colombo con il ruolo del parroco e del confessore.
Centrale in lui fu sempre la convinzione che le nostre vite siano sempre più sensate, più coerenti, più unitarie di quello che pensiamo, anche quando crediamo di vederne solo brandelli e frammenti in ordine sparso. Al di fuori delle omelie e degli scritti di grande profondità, era un Dio delle piccole cose a illuminare gli occhi di don Sergio Colombo.
All’apparenza dell’osservatore superficiale, era una figura quasi ieratica, persino dura, ma in realtà facile alla commozione e alla lacrima, come le lacrime che inevitabilmente gli scendevano mentre intonava l’Exsultet di fronte al cero pasquale.
Per chi ha avuto la fortuna di conoscerlo meglio, era una persona che passava dal registro del discorso profondo alla leggerezza della convivialità, in cui si potevano apprezzare il buon cibo, le barzellette, le partite dell’Atalanta, i paesaggi e i canti di montagna, come quello della “ceseta de Transaqua”.
Negli ultimi tempi si erano moltiplicati nei suoi discorsi gli sproni a “resistere”.
Non intendeva certo di chiudersi in un fortino, come pure pensano in molti, aggrappandosi alla tradizione come a un feticcio, schifando il mondo e aspettando che (chissà come) finisca la calata dei barbari. Probabilmente, invece, don Sergio già anticipava il riflusso, la stanchezza, la delusione, il senso di marginalità che sempre più alberga nelle realtà ecclesiali e civiche, nell’associazionismo e nella partecipazione politica.
Il suo estremo testamento è un auspicio di resistenza al disincanto, al nichilismo, al cinismo, alla sensazione che nulla conti più e che ci possa in fin dei conti solo lasciarsi portare dalla corrente.
Rimanere umani e resistere! Hai capito?