“Dio è amore”. I significati profondi di una frase celebre

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“Dio è amore”. I significati profondi di una frase celebre

l grembo di Dio. Ontologia trinitaria e affezione creatrice è il titolo forte di un profondo libro di Pierangelo Sequeri, noto teologo della diocesi di Milano. Impegnativo ma straordinariamente rivelatore

«Poi li condusse fuori verso Betania e, alzate le mani, li benedisse. Mentre li benediceva, si staccò da loro e fu portato verso il cielo. Ed essi, dopo averlo adorato, tornarono a Gerusalemme con grande gioia; e stavano sempre nel tempio lodando Dio» (Luca 24, 50-53). 

Pasolini: l’Ascensione è il momento più sublime di tutto il Vangelo

Nel finale del suo documentario Sopralluoghi in Palestina per il Vangelo secondo Matteo Pier Paolo Pasolini, visitando l’Edicola dell’Ascensione a circa un chilometro dalla Città Vecchia di Gerusalemme, sosteneva che l’episodio a cui è intitolata questa piccola chiesa sarebbe «il momento più sublime di tutta la storia evangelica, il momento in cui Cristo ci lascia soli a cercarlo».

Che cosa comporta che il Risorto sia infine «asceso al cielo, alla destra del Padre»?

Ma che cosa comporta, dal punto di vista di Dio, che il Risorto sia infine «asceso al cielo, alla destra del Padre»? Siamo autorizzati a pensare che così si completi semplicemente un movimento circolare iniziato con l’Incarnazione, di modo che la realtà divina, al termine, si ritroverebbe «immutata» nel punto iniziale?

In questo blog abbiamo già recensito più volte i testi del teologo e musicologo Pierangelo Sequeri: se la cosa vi fosse venuta a noia, fate tranquillamente a meno di leggere le righe che seguono (oppure, segnalateci altri autori contemporanei che considerate più meritevoli, più significativi per i loro contributi a una riflessione sul senso dell’esperienza cristiana: a noi, ora come ora, non vengono in mente molti nomi). 

Un essere umano nel grembo di Dio

ùHa appunto per titolo Il grembo di Dio. Ontologia trinitaria e affezione creatrice un volume di monsignor Sequeri recentemente pubblicato da Città Nuova (pp. 320 con una prefazione di Piero Coda e una postfazione di Kurt Appel, 23 euro). L’ipotesi di partenza del libro è che dal racconto neotestamentario relativo all’Ascensione fuoriesca un pungolo incandescente sia per la teologia, sia per la filosofia. Se questo episodio è preso sul serio, se non lo si riduce a una vaga allegoria, occorre riconoscere che «nell’intimità trinitaria di Dio è insediato a pieno titolo – per sempre e quindi da sempre – un essere umano. Nessuna creatura abiterà mai questo spazio e questo tempo nel modo singolare in cui lo abita il Figlio. Eppure, questo insediamento apre la certezza di una ospitalità inimmaginabile del grembo di Dio per tutte le creature, grazie a Gesù». 

È noto come, fin dal II secolo, il cristianesimo abbia fatto uso delle categorie del pensiero greco per esplicitare il suo messaggio: nel pensiero di Platone i Padri della Chiesa trovarono l’indicazione di un livello della realtà che trascende quello materiale. Le nozioni filosofiche di «sostanza» (hypòstasis) e di «natura» (physis) permisero di definire i grandi dogmi cristologici e trinitari. La pretesa di alcuni che oggigiorno si debba operare una sorta di reset, in nome di una «de-ellenizzazione della fede», corrisponde verosimilmente a un’impresa impossibile, forse anche un po’ inconsulta: assomiglia al gesto di chi volesse cavarsi gli occhi e forarsi i timpani per poter vedere e ascoltare diversamente dal modo abituale. 

Un Dio isolato e immutabile, soggetto privo di passioni, pura intelligenza paga di sé non è il Dio trinitario della rivelazione cristiana

Tuttavia, è pure vero che il dogma dell’Ascensione non si lascia pensare secondo quelle coppie di contrari (carne-spirito, finito-infinito, tempo-eternità) che con il tempo sono andate prevalendo, nel pensiero religioso e secolare dell’Occidente.

L’identificazione del «divino» con una sostanza isolata e immutabile, che per nessun aspetto dipenderebbe da altro, o con un soggetto privo di passioni, pura intelligenza paga di sé, ha un costo elevato: implica, al di là di qualsiasi tentativo di abbellimento retorico, una svalutazione della finitezza, una negazione della libertà umana (o all’opposto, una sua riduzione ad arbitrio), una sottomissione della sensibilità e delle passioni a un ideale etico meramente «contemplativo».

Un logos che concepisca l’Assoluto secondo il modello della stabilità-autosufficienza finirà inevitabilmente col porre l’ambito della ragione «totalmente al riparo dall’ordine degli affetti – scrive Sequeri -, e abbandona pertanto al caos ciò che non può portare all’interno dei vincoli in cui non si deve credere a niente, né amare nulla, il determinismo della verità in cui vuole ri­conoscere la sua unica signoria».

Da Feuerbach a Nietzsche, l’ateismo moderno ha precisamente voluto difendere la corporeità umana contro questa tendenza «ascetica» (in una sua poesia, Heine affermava: «È già in terra che vogliamo erigere / il regno dei cieli. Vogliamo che sia / felice la terra e non che peni»; e aggiungeva: «Il cielo lassù lasciamolo a voi, / Angeli, e a voi passerotti»). 

Il Dio “unico” non è mai solo

Per Sequeri il kairós, la grande chance che si prospetta nella nostra epoca consiste nella possibilità di riscoprire le implicazioni radicali sia del dogma dell’Ascensione, sia di quello trinitario: il Dio unico non è mai «solo», la sua eternità non è stasi. La famosa espressione della Prima lettera di Giovanni («Dio è amore») va intesa rigorosamente, nel senso che la dimensione relazionale e affettiva non si aggiungerebbe in seconda battuta – per così dire, accidentalmente – alle altre prerogative dell’Essere.

(«Il Figlio e lo Spirito – osserva Pierangelo Sequeri – non sono mai stati meno che Dio. Ma Dio non è mai stato meno che Padre. L’essere-logos, l’essere-spiritua­le, è onticamente irriducibile all’elemento pre-singolare e pre-per­sonale. E al tempo stesso impensabile nell’assolutezza puramente autoreferenziale dell’uno-unico: vuoi come riduzione al principio impersonale o come autocoscienza sostanziale dell’io. L’affettivo, proprio come lo spirituale, è originariamente “personale”. Anzi è l’originario dell’essere-personale»).

Detto diversamente: la dimensione affettiva non è una superfetazione, una nostra proiezione psicologica con cui andremmo a tinteggiare, colorandolo, un «solido nulla», una realtà oggettiva di per sé opaca, indifferente, collocata al di là (o al di qua) del bene e del male. Inoltre, ciò che la dottrina cristiana afferma circa i rapporti tra le persone del Dio tri-unitario e sull’ascensione in cielo del corpo di Gesù ha profonde ricadute non solo a livello teologico ed ecclesiologico, ma antropologico, etico, perfino politico.

Non esiste un Dio legato a se stesso, ma solo il Dio che si dona

L’esperienza umana testimonia infatti – esemplarmente nel fenomeno della «generazione» – di questa condizione aperta, originariamente relazionale del divino:

Nell’atto di dare la vita, e nell’esserci che ne viene al mondo, traluce sempre questo fondamento: ossia la pura assolutezza della donazione/disponibilità dell’essere, in sé stessa infondata, la quale, nell’evento della sua declinazione etico/affettiva, giudica tutto e non è giudicata da nessuno. Di fatto, ciò che chiamiamo spirito, vita se­condo lo spirito, è la disclosure di questo orizzonte dell’affezione re­sponsabile del mondo: in sé stessa infinita, inesauribile, indistruttibile»

(nella postfazione a Il grembo di Dio, commentando questo e altri consimili passaggi del libro di Sequeri, Kurt Appel scrive che «con il principio supremo (Grundsatz) “Ti voglio bene” inizia la creazione divina. Dio non è un sostantivo che rappresenti una macchina del moto perpetuo autosufficiente. “Causa sui”, “essere”, “energia”: tutto questo non ha nulla a che fare con il Dio trinitario. […] Non esiste un Dio legato a sé stesso, ma solo il Dio che si dona e che si riceve nell’altro da sé, insomma il Dio che vive la caritas/agape. Il voler-bene della caritas è la base di ogni creatività che non sia distruttiva ed è proprio in essa che Dio può essere sperimentato»).

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