
Pochi anni fa, il mio ritorno all’Haghio Oros si rivelò una mistagogia. Il sole tramontava. Il mare era calmo. Navigavamo lontani dalla penisola, muovendoci direttamente, con un piccolo scafo, da Ouranopolis a Dafni. L’Athos mi è apparso smeraldo, tutto luce celeste. La penisola dell’Oros, avvolta dallo stesso splendore. I monasteri biancheggiavano sulla sponda del mare. Non era uno spettacolo esterno che i nostri occhi coglievano. Nè una bellezza sensibile. Non era semplicemente un momento di pace. Tutto l’Oros, la natura, l’Athos, i monasteri, i boschi, gli scogli erano carichi di luce gioiosa permeati di una celeste bellezza. L’Oros si rivelava invisibilmente come veramente Haghion, santo. L’epiteto della santità non appariva qualcosa di estraneo alla sua costituzione. Avvertivi che se qualcuno avesse potuto dissolverlo, come una zolla di terra, da tale dissoluzione sarebbe scaturita una luce abbacinante, una fragranza simile a quella che ha inondato l’universo il giorno della Risurrezione. “Facendo lampeggiare la carne della divinità hai rivelato più bella la bellezza della natura. Benediciamo, Vergine benedetta, il tuo parto” (Basilio di Iviron)
C’è un posto in Europa che affascina, da sempre, i pellegrini cristiani: il monte Athos. Questa “repubblica monastica” occupa il territorio del “dito” più orientale della penisola Calcidica, nella Grecia settentrionale. Governata da leggi proprie, essa rappresenta un vero e proprio santuario pan-ortodosso in cui chiese nazionali del mondo cristiano di rito bizantino si sono incontrate per dare vita a comunità monastiche che interpretano ancora oggi con severità e rigore le tradizioni ascetiche e liturgiche del monachesimo cristiano primitivo. Uno straordinario “museo vivente” d’arte bizantina, ricco di armoniose architetture medievali, di splendidi cicli di affreschi, di icone antichissime, di miniature, di arredi e di oggetti sacri e profani. Un mondo nel quale la vita pare svolgersi ancora secondo un ritmo millenario.
“L’Athos è come un diamante dalle mille sfaccettature. Non guardarlo con occhi “occidentali”, preoccupati di capire e di giudicare tutto. Contemplalo e accoglilo come un evento spirituale. Su quella terra vi è una testimonianza millenaria ininterrotta di fede e di radicalismo per il Signore. Entra a piedi nudi, in silenzio, con fede: solo allora, la Santa Montagna (Aghion Oros, in greco) ti rivelerà tutti i suoi tesori”. Così mi ha suggerito l’amico Lino, fratello della Comunità di Bose, quando gli ho comunicato l’intenzione di recarmi sul Monte Athos. Le sue parole mi hanno accompagnato per tutto il viaggio e sono state preziose per entrare con rispetto, in questo “mondo a parte”, distante, dall’Italia, solo due ore e mezzo di volo.
Un mondo affascinante e controverso, dove la cultura pare lasciare il posto solo alle fede e alla preghiera eppure ricco di monasteri che conservano gelosamente tesori d’arte e di storia; un mondo dove le comodità sono bandite e dove, volontariamente, migliaia di uomini, per lo più giovani, hanno scelto di vivere separati dal mondo, in obbedienza alla verità di ogni cosa, per gridare silenziosamente il primato di Dio.
Già, il monte Athos. Quante volte mi sono detto che, un giorno o l’altro, sarei riuscito a salirvi. Le difficoltà apparivano molteplici: da sempre, il luogo è interdetto alle donne (scoprirò poi che anche quasi tutti gli animali femmina subiscono la stessa proibizione) e ottenere il famoso “Diamonitirion” (il foglio con il permesso scritto che garantisce il libero soggiorno nel territorio dell’Athos) non è poi così facile.
Solo dieci persone al giorno (il limite non esiste per i greci ortodossi) riescono ad ottenere il permesso di salire e essere accolti – con una spesa di soli 30 euro – per quattro giorni nei diversi monasteri che si riescono a visitare. Imparerò presto che i monaci – diffidenti nei confronti dei turisti – sono molto disponibili ad incontrare i pellegrini. Ogni volta che arrivo in un monastero, il monaco che mi accoglie, mi offre, con misurata ma autentica cortesia, bicchieri di acqua e di uzo (un liquore all’anice) e diversi lukuma, i dolci greci.
La penisola athonita, la più orientale delle penisole calcidiche, lunga circa 45 chilometri e larga dai 5 ai 20 chilometri, per una superficie totale di 360 chilometri quadrati, che si eleva fino alla piramide rocciosa del Monte Athos (2.033 metri) appartiene alla Grecia che ne riconosce il valore. Questa terra era già sacra per gli antichi Greci: una roccia, narra la leggenda, gettata per sfida a Poseidone dal titano Athos.
Oggi è una sfida – scriveva il grande patriarca di Costantinopoli, Atenagora,
al sussiego di questo secolo, l’ultima di quelle colonie monastiche, repubbliche dello spirito, che apparvero nel IV secolo per ricordare che il significato supremo del cristianesimo non consiste nel governare la terra ma nel conquistare con la violenza il Regno dei cieli.
Baluardo della spiritualità e della tradizione ortodossa, la penisola ospita venti monasteri. Sedici di questi sono di rito greco, ma ci sono anche serbi, bulgari, romeni, russi, per un totale di 2200 monaci. Erano più di settemila nel 1913.
Ad iniziare tutto fu, nel decimo secolo, sant’Atanasio. Egli riuscì a dare forma all’ideale monastico nella modalità cenobitica. Alla Meghisti Lavra, ossia “la lavra più grande”, che ancora oggi esiste come monastero, sant’Atanasio trasformò i piccoli centri monastici, da tempo sulla penisola, in imprese agricole ed economiche. Insegnò a gestirle con criteri manageriali e i risultati, sin da subito, furono notevoli. Utilizzò animali da lavoro per alleviare le fatiche dei monaci, costruì sistemi di irrigazione, bonificò vaste estensione di terreno, organizzò la pesca con battelli, e introdusse nei monasteri fabbri, carpentieri e artigiani di ogni genere.
Sant’Atanasio recuperò dalla Regola di San Benedetto l’attenzione alla singolarità di ogni persona, al pieno rispetto ed alla valorizzazione della sua specificità. Permise pertanto ai monaci che lo desideravano di vivere in monastero, costruito come un vero e proprio “castellum” bizantino e cinto da mura merlate, ma non impedì agli eremiti di trascorrere la loro vita in grotte e caverne. Ancora oggi, sull’Athos molti sono i monaci che vivono nei venti monasteri ma, ancor di più, sono coloro che vivono nelle skiti – centri monastici costituiti da una serie di edifici isolati – o nelle kalive, casupole in cui vivono piccoli gruppi di anacoreti o in capanne inaccessibili, disseminate all’estremità meridionale della penisola, chiamate issichastìria.
Al Monte Athos non esistono “regole” nel senso occidentale del termine, ma soltanto indicazioni e consigli, condivisioni di esperienze che variano in ogni comunità e non escludono mai il passaggio verso l’estremismo spirituale dei solitari. Così stanno a fianco l’uno dell’altro l’Athos settentrionale dai grandi monasteri disseminati nella foresta e l’Athos del Sud dai dirupi a strapiombo sul mare, “deserto” calcareo dei romitaggi dove pochi monaci lavorano e pregano insieme.
E’ singolare che, per diversi secoli, l’Athos abbia attraversato indenne la dolorosa separazione tra le due chiese: gli atti ufficiali furono firmati, per molto tempo, sia dagli igumeni latini che da quelli ortodossi. Solo nel XVI divenne il baluardo dell’ortodossia e questo pare, anche al visitatore odierno, il compito attuale a cui presidiano tutti i monaci presenti.
Non uno dei molti che incontriamo, dimostra di credere alle ragioni che spingono oggi la chiesa cattolica a volere il dialogo ecumenico. Qualcuno ricorda il sacco di Costantinopoli (1204), altri fanno notare il peso e del papato che, a loro dire, mortifica la logica conciliarista che caratterizza, da sempre, l’ortodossia.
Dal punto di vista strutturale, infatti, la Chiesa ortodossa non è organizzata in maniera unitaria. Essa è formata da un insieme di Chiese che si riconoscono in comunione reciproca, ciascuna delle quali è però autonoma nell’amministrazione interna e nel governo. La comunione tra le Chiese non trova quindi espressione in strutture unitarie di carattere amministrativo, ma è basata sulla professione della stessa fede e sulla condivisione della medesima tradizione. “Non ti preoccupare” mi dice, al ritorno, l’amico Lino. “Il dialogo non matura secondo tempi mondani. Nel frattempo, occorre pregare per vedere la mano di Dio che ci conduce, non la mano degli uomini che ci divide”.
Sul battello che da Ouranopolis ci conduce a Dafni, il piccolo porticciolo di arrivo dell’esclusivo accesso via mare, affollato di monaci e di greci che salgono all’Athos per celebrare il Natale, incontriamo Alexander, un eremita di 75 anni, originario di Vienna, da vent’anni sulla Santa Montagna, dopo aver vissuto a Santa Caterina, sul Sinai, a Hebron e a Kotziba, nel deserto di Giudea. Poeta e scrittore, Alexander ci racconta di pregare, ogni giorno, in una lingua diversa, “così mi sento di appartenere a tanti popoli”. E’ lui a raccomandarci di cogliere, nella molteplicità delle esperienze che si vivono all’Athos, il cuore della proposta spirituale: l’unificazione del cuore e il continuo richiamo al Mistero presente in ogni realtà e in ogni tempo, in ascolto di una voce che in tutto e attraverso tutto parla e fa vivere.
Alexander mi racconta un episodio dei “Detti dei Padri del deserto” dove viene descritta una visita di Teofilo, arcivescovo di Alessandria. ai monaci di Scete. Ansiosi di fare una buona impressione al loro illustre ospite. i monaci riuniti chiesero all’abate Pambo: “Dì qualcosa di edificante all’Arcivescovo”. Ed il vecchio rispose: “Se non è edificato dal mio silenzio, tanto meno sarà edificato dalle mie parole”. “Il silenzio – mi ripete l’anziano eremita – non è una disciplina: è un valore. Solo così si giunge all’ascolto di quanto, ogni giorno, il Signore ci suggerisce”.
La verità esistenziale può essere riconosciuta attraverso un occhio interiore, un “sesto senso” che Pascal denominava “esprit de finesse”. Tale occhio i Padri lo definiscono “occhio del cuore”. L’unico motivo per cui esiste l’ascesi è quello di purificare questo senso interiore con il quale l’uomo scopre il mistero di Dio. L’ascesi è un mezzo, non un fine, ci ripete il vecchio Alexander, prima di salutarci.
L’impatto con il monastero è profondo. Quasi tutti i monasteri sono lungo la costa o non lontani dal mare. Le balconate a sbalzo, in legno, conferiscono a queste cittadelle dello spirito, spesso a picco sul mare, un aspetto particolarmente pittoresco. L’ingresso corrisponde alle caratteristiche proprie delle piazzaforti fortificate medievali: un doppio portale, interno ed esterno, con i battenti delle porte massicci e rinforzati da spesse lamine metalliche e da grossi chiodi.
L’architettura interna è pressoché identica per tutti i monasteri: la chiesa (katholikon) al centro del cortile, il refettorio (tràpesa), l’edicola per la benedizione dell’acqua (fiàli), le celle dei monaci, la biblioteca e la foresteria.
Il simbolo e l’orgoglio del monastero è, evidentemente, la chiesa, dalle pareti intonacate e dipinte di un coloro rosso, simbolo del sangue di Cristo e dei martiri. Sontuosamente decorata e ricca come può essere solo una chiesa ortodossa, essa è il centro gravitazionale della vita monastica. Lì, già nelle prime ore della notte, al rintocco del simandron, uno strumento di percussione di legno e di ferro, i monaci, rivestiti dell’abito corale, cioè con rason e velo nero sullo skufos, si radunano e celebrano l’ufficio notturno (mesonyktikòn), l’ufficio dell’alba (òrthros), accompagnato dalle lodi mattutine (Eni).
Segue la liturgia eucaristica (la Divina Liturgia), per la quale il sacerdote e il diacono indossano le vesti liturgiche. Solo nelle feste la celebrazione è presieduta dall’igumeno, con altri sacerdoti concelebranti. Generalmente i monaci non ricevono con frequenza la comunione. Padre Joannis, il colto iconografo del monastero di Dionissou, ci spiega che questa è una scelta di umiltà e la comunione deve essere sempre preceduta da una lunga preparazione.
Comunque sia, il giorno di Santo Stefano – che, in osservanza al calendario giuliano in vigore sull’Athos, si celebra l’8 gennaio – vediamo solo due monaci su trenta accostarsi alla Comunione. Al termine della liturgia, verso le 7,15 del mattino, ci viene offerto il pranzo, particolarmente ricco per il giorno di festa: una zuppa di porri e cipolle, due pesci pescati la sera prima (nell’Athos non si mangia carne) e un piccolo dolce. Il tutto da consumare, nello splendido refettorio del XV secolo, in quindici minuti, mentre un monaco legge, in greco, la vita del santo.
La giornata del monaco è scandita in tre momenti: la preghiera, il lavoro e il riposo. Tanto la preghiera quanto il lavoro, possono essere individuali o collettivi. La preghiera individuale viene recitata nella solitudine della cella o dell’eremitaggio, mentre quella collettiva in forma comunitaria all’interno del katholikon, secondo liturgie ed orari rigidamente definiti.
“Trova la pace interiore e molti troveranno in te salvezza”, diceva san Serafino di Sarov. La preghiera individuale, all’Athos, è, per lo più, la preghiera del cuore o, come dice la tradizione che proprio qui sulla penisola alla fine del Medioevo ebbe la sua fioritura, la preghiera di Gesù, la ripetizione ininterrotta delle seguenti parole: “Signore Gesù Cristo, Figlio del Dio, abbi pietà di me peccatore”.
Inizialmente questa preghiera viene detta con le labbra ad alta voce, scorrendo le dita tra i nodi di una corda, chiamata in greco komvoskini, e successivamente viene interiorizzata sempre più man mano che si avanza spiritualmente. Non a caso, nella Filocalia si può leggere più volte: “Persevera nel Nome del Signore Gesù affinchè il tuo cuore beva il Signore e il Signore beva il tuo cuore, e così facendo diventino una cosa sola”.
La preghiera liturgica, la lettura del salterio e tutte le altre forme di preghiera hanno lo stesso fine, ma la preghiera del cuore è la preghiera per eccellenza, perché grazie alla sua semplicità, può aiutare qualunque uomo. Così, nel mondo ortodosso, viene denominata semplicemente “la preghiera”.
Le chiese dell’Athos, come tutte le chiese ortodosse, fondono insieme il dato artistico e architettonico con quello simbolico. Il nartece, destinato ai catecumeni e ai penitenti (in molti casi sarà proprio da qui che parteciperemo alle liturgie dei monaci), rappresenta la terra; la navata, destinata ai fedeli adulti, il cielo visibile; il coro destinato agli ecclesiastici, il regno del puro spirito; l’altare il trono di Dio, i lumi dell’altare le stelle e l’incenso l’alito dello Spirito Santo.
Occorre entrare in questo mondo simbolico e imparare, a poco a poco, che l’unione tra il rito e l’arte è intima. Spazi e volumi, pitture e colori, conferiscono un’atmosfera spirituale intensa che avvolge anche noi, pellegrini italiani che poco comprendiamo delle lunghissime liturgie in lingua greca.
A Pantokratoros, una splendido monastero a strapiombo sul mare, incontro Teofilo, un giovane monaco che, dopo avermi offerto un caffè, si ferma a dialogare. “La povertà è nel cuore e nella testa” mi ripete. “Che cosa vuol dire?” gli chiedo. “Significa che Cristo è la prima benedizione: non dimenticatelo! Io ho viaggiato a lungo in Europa e ho studiato teologia. Ho sentito molti parlare di Dio, ho ascoltato il loro pensiero e i loro racconti. Ma nessuno mi parlava della propria esperienza di Dio e ho concluso che non è importante parlare di Dio ma fare l’esperienza di Dio”.
Ecco, forse questo è il segreto dell’Athos: uomini che gridano silenziosamente, con la gratuità della loro vita, il primato di Dio. Per questo, come diceva già nel IV secolo, un padre del monachesimo, Evagrio Pontico: “il monaco è colui che, separato da tutti, è unito a tutti”.
Come sentinelle che vegliano nella notte e che dicono, agli uomini incerti del nostro tempo, che è possibile sperare nella luce del Vangelo, “balsamo per la vita e per la morte, per l’affanno e per la consolazione” (Massimo il Confessore)