Da laico nella città/L’indimenticato don Tonino Bello, vescovo di Molfetta e, negli anni ottanta,
figura profetica del movimento per la pace,
scrisse una volta di un saggio orientale che avrebbe voluto chiedere a Dio Onnipotente
un solo miracolo: ridare alle parole il senso originario.
Sì, perché – ricordava don Tonino – oggi le parole sono diventate così “multiuso” che non puoi più giurare a occhi bendati sull’idea che esse sottendono. Anzi, è tutt’altro che rara la sorpresa di vedere accomunate accezioni diametralmente opposte sotto il mantello di un medesimo vocabolo.
Guaio, del resto che è capitato soprattutto ai termini più nobili, quelli, cioè, che esprimono i sentimenti più radicati nel cuore umano come pace, amore, libertà. A dire il vero, terminava don Tonino,
per quel che riguarda la pace, pare che questa “sindrome dei significati stravolti” fosse presente anche nei tempi remoti, se è vero che perfino in un salmo della Bibbia troviamo denunce del genere: “essi dicono pace, ma nel loro cuore tramano la guerra”.
Parlare di pace, quindi, significa fare i conti con le inevitabili ambiguità che il termine e la sua comprensione comportano. Questo è dovuto forse al fatto che veniamo da una lunga tradizione (culturale e teologica) che ha sempre favorito la parola “guerra” alla parola “pace”. La guerra appare come una parola forte, che richiama eventi storici e aspetti della cultura di appartenenza o delle culture di altri popoli.
La pace, d’altro canto, risulta una parola debole, senza un adeguato quadro di riferimento antropologico, la collochiamo in una dimensione emozionale, oscillante tra lo slancio emotivo e il buon senso. Per questo, nel corso della storia, abbiamo avuto una “teologia della guerra” (giusta, ma della guerra), una “letteratura della guerra”, una “musica della guerra” ma quasi mai una teologia, una letteratura, una musica “della pace”.
Eppure la pace è il primo dono di Gesù Risorto (Gv 20). Attorno ad essa i cristiani hanno, nel corso della storia, misurato la loro fedeltà al Vangelo e, insieme, la loro fatica di coniugare, nelle vicende umane, quella buona notizia che non ha altro terreno su cui depositarsi se non la storia stessa.
Con due rischi, sempre presenti all’interno della vicenda cristiana. Il primo è quello che potremmo definire una sorta, non troppo velata, di “fondamentalismo” evangelico che, brandendo minacciosamente il vangelo, evita qualunque forma di mediazione con la complessità della situazione umana. Il secondo, speculare al precedente, è quello di chi ritiene necessario fare i conti con la storia, senza perdersi in eccessivi riferimenti, e, alla fine, giustificare, con la fede, qualsiasi tipo di opzione assunta.
Sono “corti circuiti” che dimostrano la difficoltà dei credenti a pensare, in modo critico, la forma di presenza dentro il mondo. In realtà, sin dagli inizi dell’avventura cristiana, i credenti nel Dio di Gesù si sono mossi seguendo due linee. La prima era quella profetica, segnata dalla denuncia e da una più radicale aderenza al messaggio biblico evangelico (lo shalom che è abbondanza e pienezza per tutti ma anche il volto e la storia di Gesù di Nazareth). La seconda era quella sapienziale più attenta al discernimento e alla ricerca del bene possibile qui e adesso.
Le due linee non si escludono anzi si integrano dialetticamente. Ma nella storia della Chiesa spesso una ha prevalso sull’altra. Dando a volte l’impressione di aver trasformato la mediazione in compromesso. In alcuni, addirittura, giustificando in nome di Dio la scelta di parteggiare militarmente per una parte contro un’altra.
Per questo, bene ha fatto domenica scorsa papa Francesco all’Angelus a ribadire con forza che Dio può stare solo da una parte: “Dio sta con con gli operatori di pace, non con chi usa la violenza.” E poi con grande forza ha richiamato, scandalizzando alcuni, lo splendido articolo 11 della nostra Costituzione Italiana:
Perché chi ama la pace ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”.
Parole sacrosante che sarebbe bene che noi e i nostri politici ricordassimo più spesso.