Occorre provare a rivolgere uno sguardo attento a ciò che nasce in un tempo che faticosamente è da riconquistare come un cammino oltre e fuori dai miti, dalle funzionalità, dagli equilibri di ieri. Che erano, per altro, già svelati nella loro fragilità ed anche nella loro ingiustizia, nella loro pericolosità per la sostenibilità e per il futuro delle generazioni giovani e a venire. Nella disequità nella distribuzione e nella accessibilità alle risorse, alle possibilità, alla cultura e alla salute.
Un tempo d’esodo si è aperto dopo le grandi fratture, i grandi disvelamenti e le uscite dagli ordini di prima. Un tempo da sperimentare appunto come un cammino e nel quale cercare e “provare”, anticipandoli, un orizzonte e una promessa. Una promessa buona tra uomini e donne, tra generazioni, tra culture e popoli. Tra generazioni forse anzitutto.
Il dono e le sofferenze, i corpi, le biografie
E il dono – la sua pratica e la sua attesa, la sua capacità di liberare e di legare – ha ricominciato in questo tempo ad attraversare le sofferenze, i corpi, le biografie. Ha caratterizzato le “piegature” delle risorse e dei saperi, le forme del legame sociale, le attese verso la politica, verso l’economia, verso la scienza. Il dono, in tempo d’esodo, è come tornato al cuore della dinamica che apre la vita come vita comune e come cammino possibile.
Il legame essenziale tra dono e vulnerabilità, tra dono e cura si è spesso dato come un nuovo apprendimento della condizione umana, è apparso, anzitutto, come dono povero: quello di una risposta alla domanda di affidamento, di possibilità di vivere nell’esposizione da vulnerabili e fragili. Qualcosa di prezioso, come la cura del primo palmo della mano, nella condizione di bisogno, d’abbandono, dentro una fragilità e un’ansia che possono farsi angoscia.
In La persona e il sacro, Simone Weil scrive:
Dalla prima infanzia fino alla tomba qualcosa in fondo al cuore di ogni essere umano, nonostante tutta l’esperienza dei crimini compiuti, sofferti e osservati, si aspetta invincibilmente che gli venga fatto del bene e non del male. È questo, anzitutto che è sacro in ogni essere umano. (p 13)
Viene incontrata e svelata in questo tempo, anche una dimensione tragica del dono, quella legata alla sua inefficacia, alla sua impotenza, al suo limite, al rischio del rifiuto o dello scherno. Il tragico è la durezza del sospetto, della incomprensione: eppure è proprio nella sua povertà che si radica la forza trasformativa del dono e della fiducia vulnerabile.
Ci siamo ricordati in questo tempo il dolore e la bellezza del vivere, la realtà di essere poveri, di nuovo in cammino. Homo viator dicevano i filosofi, sia donatore che donatario. Da poveri con nuove paure abbiamo imparato nuove gratitudini. Ora per farne un apprendimento capace di riorientarci nella vita comune dobbiamo ritrovare e coltivare la nostra capacità di inizio, di costruzione concreta della speranza.
Come dice il salmo: trasformare in sorgente la valle del pianto
Spesso ci viene ricordato che camminare nutre il cammino. Il Salmo canta come sia chi cammina, chi è in esodo, chi osa l’attraversamento a trasformare in sorgente la valle del pianto. Nel cammino si va oltre la reciprocità, oltre la logica del ricambio e l’attesa di restituzioni: le restituzioni si danno in circuiti ampi, indiretti, diffusi, capaci di attivare continuamente una veglia attenta gli uni agli altri, sui più fragili.
Lo si fa perché vale, perché apre e genera, segna. Nell’età di una nuova povertà si può dare la forza e la mitezza adulta della presenza, della “caparra” sul futuro di altri. Come benevolenza, come benedizione, come perdono.