I preti “tremendamente soli”. Dibattito

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Da laico nella città. Rubrica a cura di Daniele Rocchetti
L’articolo di settimana scorsa sulle fatiche e le solitudini del prete oggi ha suscitato molti commenti. Ho chiesto ad alcuni amici di rispondere alle questioni poste. Queste sono una parte delle loro risposte

Si parla di ministero. Non si parla di noi. Ho letto e riletto con interesse… condivido. Tra noi sacerdoti c’è una fraternità ministeriale ma non umana… Ci troviamo sempre per parlare del ministero ma ce ne guardiamo di parlare di noi… Siamo forse limitati da una… deformazione professionale. Chiamati spesso a dire la nostra su tutto, forse temiamo il giudizio. Non c’è come il sentirsi giudicato che impedisce ad una persona di aprirsi. Non credo che siano i tanti impegni, per quello basta sapersi organizzare, come fanno le famiglie…

I preti giovani spesso sono senza regole e senza orari. Condivido l’analisi. In questo anno, negli incontri dei preti, ai quali peraltro partecipa un terzo del clero, si affrontano problemi esterni (veri certamente) ma si fatica a parlare di sè stessi. Ritengo comunque che si debba intervenire con una terapia rapida perché la malattia è seria. Vedo preti giovani che mangiano ora qua ora la; la loro casa è grande ma vuota. Non hanno orari. Un marito che ha l’amante deve tornare a casa ad una certa ora perché altrimenti la moglie lo strilla! Ma il prete se torna alle due di notte, chi lo strilla? Come si può vivere cosi? In una diocesi che conosce bene ci sono i presbiteri che vivono insieme; non è tutto oro colato tuttavia è più umano.

Si finisce per “bruciare” per via dell’obbedienza, della fatica a pregare, dell’affettività. Ho sentito per la prima volta parlare di burnout all’inizio del mio cammino di prete, durante gli incontri appositamente pensati per noi, da poco entrati nel “ministero sul campo”. Ce ne parlò don Luigi Castellazzi, psicologo e psicoterapeuta con ampie e profonde competenze. Ma questo termine, e la concreta realtà che porta con sé, l’ho sentivo come una minaccia lontana per me, che ero carico dell’entusiasmo degli inizi. La parola ha a che fare col “bruciare”… ma io mi sentivo di bruciare di amore per Dio e per i fratelli da servire (nello specifico dell’oratorio), proprio come la nostra formazione in seminario ci aveva proposto e motivato a fare. Poi gli anni passano, una certa maturità si trova ad andare a braccetto con una realtà che non è sempre rosea (in merito al tema della fede ma non solo…) o apportatrice di prospettive positive. Il bruciare diventa allora uno scottarsi a contatto con quei “fuochi incustoditi” che sono ora la questione dell’ obbedienza (ai superiori ma anche ad una vita quotidiana che comincia a diventare “impegnativa”), ora la fatica del pregare e coltivare il mondo interiore, ora la faccenda dell’affettività nelle sue varie e “corporee” sfaccettature, ora la domanda sull’efficacia di una certa pastorale fatta di ritmi serrati, tradizioni che perdono di significato e molteplici incombenze… Col rischio che lo “scottarsi” diventi un vero e proprio bruciarsi definitivo, il burnout appunto!

Il troppo lavoro e il troppo potere ci schiaccia. Urge intervenire. Provo a mandarti alcune sensazioni dopo averlo letto un paio di volte. La prima sensazione ascoltandolo è di sollievo, cioè una conferma “non è solo una mia percezione” ma un dato di realtà, un dato di fatto che non solo condivido ma vivo! Interessante e necessario il “funzionario supervisore pastorale”. Mi domando: ma è mai possibile che uno nominato parroco diventa automaticamente presidente di una scuola d’infanzia? Si trova sulle spalle un’azienda da gestire (sicuramente – se ci sono… – i volontari fanno una buona parte) senza competenze e corre disperatamente alla ricerca di figure che possano gestire… ma poi la responsabilità rimane del parroco. Troppo “potere” in mano ai parroci e veniamo schiacciati da questo… Da quando sono prete questi temi (gestione dei beni, burocrazia, ecc… che oggi si moltiplica x 1,2,3,4,5 parrocchie) sono stati SEMPRE sollevati… È necessario e doveroso non solo affrontarli ma prendere scelte concrete. Non si può più aspettare… chi gestisce 1 – 2 … 10 chiese? 2/3 case parrocchiali oratori e via discorrendo? I1 parroco! O cambiamo impostazione e il modo di “essere e fare il prete” altrimenti uno sceglie un’altra vita. Come chiesa bergamasca siamo vicini a tutti… e ai preti? ma uno “sportello” per i preti con SPECIALISTI non solo PRETI siamo carenti e sfuggenti… uno deve procurarselo se ha ancora il tempo e la voglia di farlo…

Ho trovato collaboratori capaci. Mi sono fidato di loro e loro si sono fidati di me. Amo profondamente la mia solitudine, che spesso devo cercare e a volte difendere. La sento come una compagna necessaria per affrontare l’aspetto spirituale della mia vita, tanto quanto le questioni più esterne a me e riguardanti la mia comunità. Ci sono senz’altro passaggi veri: in primis il carico di impegni che si presenta al prete uscendo dal seminario, e soprattutto la loro varietà; la maggior parte dei quali non appartiene affatto allo specifico del prete. Spesso ci si sente come quelli che dovrebbero saper fare tutto e il contrario di tutto. Tuttavia la mia esperienza, forse sono stato particolarmente fortunato, mi ha fatto incontrare parrocchie dentro le quali ho trovato gente capace, disponibile alla collaborazione, e che sempre mi ha supportato se non addirittura sostituito in molti di quegli impegni sui quali non avevo proprio alcuna competenza. Ovvio, delegando non ti sgravi della responsabilità. Quella resta. Ma su questo si gioca la fiducia con le persone e con i collaboratori. D’altra parte anch’essi si fidano del prete. D’altra parte questa è anche una delle radici della fede. D’altra parte fede e fiducia sono la stessa parola.

Ascoltarsi, ascoltare, essere ascoltati. Tra noi preti di Bergamo ci sono tanti (e a volte silenziosi) gridi inascoltati o problemi indirizzati verso soluzioni non adatte, non adeguate… C’è ancora forse troppo il legame ad una istituzione intesa come struttura rigida, che rallenta le prospettive o i progetti “altri”, i tentativi di una pastorale “diversa” e diversificata, le idee che nascono dalla fantasia dello Spirito operante nei singoli… Non so dire quale sia la strada giusta, non ho risposte… ma ho voglia, come tanti altri, di essere contento del mio essere uomo, e del mio sacerdozio che ne è parte integrante! Sento il bisogno di spazi di confronto e di condivisione e di scelte concrete che scaturiscano dal nostro esserci parlati, chiariti, a volte scontrati in vista di un bene maggiore! Cerco di impegnarmi in una formazione continua ed integrale (spirituale, culturale, sociologica, aperta ai temi attuali, umana…) per non rischiare di cadere in quella mediocrità che abbassa tutti i livelli. E mi auguro che in questo possa sempre (io come i miei confratelli) essere affiancato e supportato da qualcuno che ha a cuore la causa dei preti… ascoltarsi, ascoltare, essere ascoltati!

Parroci troppo clericali, preti giovani troppo “sacrali”. Serve una Chiesa più leggera e noi preti dovremmo imparare a convertirci (e non solo chiedere la conversione degli altri). Mi guardo in giro e vedo un clero bergamasco troppo individualista e un clero giovane troppo sacrale… I miei confratelli parroci sono troppo accentratori e, lasciamelo dire, clericali. Servono parroci capaci di valorizzare i numerosi carismi, capaci delegare, delegare, delegare. In fondo, la vigna non è nostra, è di tutti i battezzati. Sarebbe bello coinvolgere anche i laici in questa discussione. Non basta parlare di Sinodo, bisognerebbe imparare ad esercitare lo stile della sinodalità..Con i confratelli è raro avere profondi rapporti di amicizia e confronto. Ma non abbiamo scelto di diventare monaci. Siamo preti diocesani e se solo lo volessimo l’offerta formativa, quella di sostegno personale, spirituale, psicologico e tecnico dalla diocesi non manca. A volte siamo un po’ troppo ritrosi nei confronti di queste proposte.

Servirebbero dei preti fanno visita ai preti. Grazie per aver scritto un articolo su argomenti che noi preti sentiamo e che tuttavia, forse perché rassegnati, preferiamo non affrontare perché siamo fondamentalmente convinti che siano inutile parlarne. Non è vero. Una prima cosa. A volte ci sono preti che si lamentano per poco ma si sa benissimo che la vita è fatta anche di impegni che non sempre sono aderenti al Vangelo e alle mani giunte. Siamo nel mondo e dobbiamo vivere anche di queste cose. Che è lo stesso che capita ogni giorno alle mamme e ai papà di famiglia. Serve uno sguardo di realismo per non desiderare una vita che sta solo nel mondo dei sogni. Tante volte i preti anche quelli giovani hanno la presunzione di sapere tutto, di farcela sempre da soli. In realtà appena si rendono conto che le difficoltà sono tante ripiegano su cose che piacciono a loro, i loro hobby, le loro stranezze (la sagrestia tra queste) e stanno su questi aspetti marginali. Fammi dire una cosa sulla fraternità. E’ buona la riforma diocesana in atto però tutto questa organizzazione ha senso se ci sta dietro una cura, una premura. Trovo strano che non si sia mai preso in seria considerazione  immaginare di avere uno o due confratelli  che non fanno altro che girare e incontrare preti. In questo modo si creerebbe quel terreno e quei legami che rendono significative le proposte finalmente comprese e non subite come imposte. Bisogna creare legami e relazioni.

Il molto fare pesa. Ma pesa di più il non percepire il motivo per fare. La questione del burnout è molto citata ma non sono del tutto convinto che questa sia dovuta al sovraccarico reale di cose da fare quanto la percezione che se ne ha. E’ vero che dobbiamo fare molte cose ma spesso tante di queste non riescono a trovare una cornice di senso sufficientemente motivante e appagante che dà l’impressione che le cose abbiano una loro sensatezza, un loro scopo. Questo mi pare oggi il vero problema del ministero. Il riconoscimento sociale non c’è più e non è certo da cercare ma manca un riconoscimento del ruolo e dello scopo. Paradossalmente questa interlocuzione è più facile con chi sta fuori la chiesa piuttosto che con chi è dentro. Ti senti poco rilevante per la vita delle persone. A meno che tu non ti senta il prete dell’arte, della pace, dell’animazione.. A volte, nel disorientamento, ti viene la domanda: per cosa vale la pena far fatica? Sto mantenendo in piedi un’istituzione e basta? Certo che il Regno di Dio merita fiducia ma in che forma lo si coglie? A questa domanda è oggettivamente difficile dare risposta. Soprattutto oggi, tempo di transizione. Ma verso dove? Anche perché quasi sempre te la devi cavare da solo, in una specie di delega che senti, a volte, come abbandono e dove le parole che usiamo spesso – fraternità e presbiterio in primis – rischiano di essere parole vuote.

Siamo incapaci di lavorare insieme e di formarci reciprocamente. Condivido. Mi stupisce che non saltino fuori le aspettative che ci sono sul prete anche da parte di una comunità che comunque chiede di tutto e di più e non è stata educata ad accettare che se il prete non fa una cosa non è perché è un fannullone. Serve cambiare l’idea di comunità cristiana e di chiesa. Una forma adeguata al presente dove capisci che non puoi più tener dentro tutto. Altrimenti è una giungla dalle quale difenderti ogni giorno. Ti può aiutare – e per me è stato così – la vita comune con i preti anche se è evidente la nostra incapacità di lavorare insieme e di formarci. E’ evidente che non c’è amicizia né fraternità tra i preti. Temo che non siamo capaci di relazionarci, di volerci bene, di prenderci cura uno dell’altro. C’è sempre il sospetto fortissimo che l’altro – il confratello – ti giudichi. Credo poi che oggi non sia vero che non si voglia più fare il prete: non si vuole più fare il parroco! Bisogna anche qui trovare un’altra forma. Ma vedo in giro poco disponibilità a farlo…

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