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“Custodire l’umano” – Una felice esperienza di integrazione nella scuola. Accettare se stessi e le proprie vulnerabilità per accettare l’altro

Quando Ahmed giunse in classe quella mattina di novembre anni fa, con il corpo lungo e scuro, percorso da tensioni improvvise, con sguardi come lampi e suoni gutturali e raschiati
i ragazzini e le ragazzine della 4^ B della Scuola Primaria di mio figlio, di solito vivaci e curiosi, restarono in silenzio, quasi ritraendosi. La vecchia sedia a rotelle del ragazzino marocchino venne portata a fianco della prima fila.

Le maestre, sorridenti e inquiete anche esse, lo presentarono alla classe: “non dovete avere paura, al massimo può far male solo a se stesso”. E poi ” non capisce, al massimo sente: o è disteso o è arrabbiato”. “Non starà sempre in classe con voi, non ci riuscirebbe”.

E così cominciò la traversata

Sì, perché la 4^B era un bel gruppo nel quale le diversità non facevano paura e un poco sfidavano: c’erano tre religioni, più nazionalità, diverse fragilità. E tre maestre diversissime tra loro, e innamorate del loro lavoro.

Ahmed si trovò piano piano preso dentro la laboriosità di gruppi, rumori ed anche musiche che accompagnavano lavori di ricerca o espressivi. I suoi rumori non risaltavano particolarmente e vi si impastavano. I corpi dei compagni erano vicini, piegati, sdraiati; abituati a sistemarsi con quelli degli altri. Anche con quello suo, che non appariva così sgraziato. Bisogni e desideri erano ammessi (se rispettosi). Bastarono poche settimane che carezze o occhiate buone o scherzose prendessero Ahmed e la sua sedia.

Non c’era bisogno di “provare a portarlo in bagno” da parte della bidella. Quasi per incanto se ne aveva bisogno qualche compagno lo avvertiva (tutti i corpi sentono la stessa tensione quando scappa la pipì…) e lo portava in bagno. Trovare un suo posto nelle attività era un po’ una sfida alla creatività, un po’ un desiderio. Che “tirava” le maestre e l’insegnante di sostegno a continue ridefinizioni di setting e di scelte.

I versi di Ahmed si modulavano nelle attività con la musica e il ritmo; divennero risposte a stimoli visivi e tattili. Nei momenti di distensione iniziava ad accostare colori su grandi fogli, con attenzione, e qualche goccia di saliva. E compagne e compagni provavano a svolgerne i tratti e  gli accostamenti, creando “grandi opere”.

La spalla destra di Ahmed scattava a volte in avanti, con forza. Moni in un intervallo gli lanciò una pallina da ping pong proprio in quel momento e… fu il primo canestro di spalla nel cesto delle bidelle! Divenne lo sport degli intervalli, con tornei a coppie: c’era chi lanciava la palla di carta e nastro adesivo costruita sottobanco nelle prime ore (la pallina era troppo leggera) e chi la colpiva di spalla. Un canestro fatto fare ad Ahmed valeva tre punti.

“Forse non è riuscito a nascere del tutto”

A marzo, durante un incontro con maestre e genitori, si venne a sapere che nella certificazione dell’UONPIA si parlava della impossibilità di insegnare al ragazzino marocchino a comunicare con il linguaggio verbale. I suoi compagni scoppiarono a ridere: loro e Ahmed avevano creato dieci “parole” che permettevano di scambiarsi messaggi su bisogni e desideri. Ne comunicarono otto ai presenti, due le tennero per loro, nei loro sguardi furbi.

Certo Ahmed faceva anche venire tristezza. A volte si scuoteva e girava la testa, come se si sentisse prigioniero. Qualche volta “sbatteva” e nei suoi occhi tornavano i lampi che facevano paura. “Non morirà, maestra, non morirà eh …!?”. Oppure: “sarà magari rabbioso con noi che leggiamo e comunichiamo?”. Alcune compagne si allontanavano con le lacrime agli occhi.  Un suo compagno, un giorno che il suo compagno sembrava lontano e freddo sulla sua sedia, aveva detto: “forse non è riuscito a nascere del tutto”.

Comunicare, capirsi è una fatica, a volte non riesce. Ci si muore un po’ dentro. Dopo un po’, o il giorno dopo, tornavano gli sguardi e i suoni di Ahmed e la danza riprendeva lì attorno.

L’ultima settimana di scuola giunse in classe una signora bassa, con il velo e uno sguardo mesto e dolcissimo, con un grande vassoio di dolcetti della tradizione del Magreb. Passò silenziosa tra i banchi  carezzando ogni ragazzina e ogni ragazzino e dicendo, piano, “grazie”. Infine: “Ahmed è stato felice con voi, ed è diventato più grande”. Quell’estate partirono per la Francia.

“Ci vuole una scintilla di vulnerabilità”

“Ci vuole una scintilla di vulnerabilità per lasciar essere l’altro” ha scritto un grande filosofo con cui dialogano in uno scambio di lettere profondo e delicatissimo ma anche sconvolgente, Julia Kristeva e Jean Vanier. Uno scambio di lettere tra la grande filosofa e psicoanalista bulgara d’origine e francese d’adozione, madre di David. David è portatore di una disabilità psichica grave da quasi quaranta anni. Jean Vanier è un religioso canadese, ora molto anziano, fondatore  della rete delle Comunità d’accoglienza L’Arca per le persone portatrici di fragilità e debolezze irriducibili.

La “scintilla di vulnerabilità”, di cui possono essere capaci le bambine e i bambini è, per gli adulti  (le madri, i padri, gli insegnanti le educatrici, …) una conquista. Ci vuole un cammino serio e coraggioso, una capacità di affidamento ed esposizione, una lucidità di lettura della realtà  e di pensiero. Servono competenze solide e raffinate, e forti capacità  immaginative.

Accanto alla debolezza irriducibile ci vuole una manutenzione quotidiana dell’arte di vivere e di maturare, insieme.

E’ “la ricerca della vita felice con gli altri” come scrive Vanier, e la capacità “di integrare la morte nella vita” come scrive Kristeva. Maturazioni a volte improvvise; maturazioni dalle quali a volte ci difendiamo, ci allontaniamo impauriti. Maturazioni entrate, quell’anno scolastico, nell’anno della 4^B, delle sue ragazze e dei suoi ragazzi, delle sue insegnanti, delle sue mamme e dei suoi papà.

Incontrare l’uomo con il suo limite

Fare incontrare l’uomo con il suo limite, senza l’anestesia della fuga o dell’indifferenza, e senza disperare,  chiede “un nuovo umanesimo”. Questo, però, scrive Vanier, “implica un duro lavoro su noi stessi”. Perché “per evitare di disprezzare gli altri, così differenti da noi, è indispensabile accettare se stessi, con le proprie debolezze e i propri handicap”. Può tutto questo, attraversare consapevolmente un percorso di formazione, la relazione educativa in una scuola? E’ possibile che “la vulnerabilità estrema e i limiti della vita (vengano) trasformati in comunità?”.

Julia Kristeva e Jean Vanier sostengono che deve cambiare lo sguardo.

Quello della politica: “quale istanza politica sarebbe in grado di riconoscersi handicappata nella propria essenza affinché l’azione pubblica possa aprirsi a un autentico umanesimo della vulnerabilità solidale?” domanda Kristeva. Quello della prossimità della cura. Essa “non ha alcun bisogno di essere efficiente, almeno per qualche tempo, vivere la gioia inesprimibile dell’incontro tra due persone,  dopo tante lotte, diventa fonte di trasformazioni”, scrive Vanier.

L’handicap (così decide di chiamarlo crudamente Julia) risveglia un’angoscia che può essere devastante se lo sguardo é solo “caritatevole”, o di “sostegno”. Questo sguardo non reggerà la sfida della domanda “ha davvero senso investire tempo e denaro nella cura dell’irreparabile?” Occorre trovare un senso più profondo, la convinzione della preziosità di ogni forma di vita, l’unicità originale di ogni fioritura nuova. E’ necessario “sapere cosa farsene della propria impotenza” (Julia) nell’aiutare a formare parole, pensieri, scambi, gioia.  Bisogna arrivare ad apprezzare “l’arte di reinventare il quotidiano” (Jean) per fare spazio dei “possibili inizi che mi incontrano là dove non sospettavo di trovarli” (Julia).

Parlare dell’handicap è più facile che “parlare” con e alle persone con handicap, vivere con  loro i riverberi della vulnerabilità. E’ più facile che stare sulla soglia dove “vivere con e attraverso l’handicap”. È difficile e prezioso stare sulla soglia. “Né nella bolla del ferito, né sulla nuvola del nessuna differenza”; né nello sguardo che esclude, né nell’affetto che nega l’irreparabile e la sua controparte, la morte” (Julia).

Possibile un incontro tra “soli”

É possibile un incontro tra lontani, tra “soli” come dicono i due amici nello scambio epistolare: l’handicap non “incasella” bambini e bambine, donne e uomini in categorie (autistici, sordi, down, …). Accentua, anzi, la singolarità di ogni persona con il suo limite. C’è, sorprendente, la “capacità dei soli  di stare insieme”, di creare esperienze nuove, nuovi legami. Di ritrovarsi in nuove possibilità e in nuove dimensioni.

Chi educa deve sapere che l’altro é l’altro, non ne posso disporre (“non ho potere su di lui”). Né posso definire troppo gli itinerari del suo “progredire”. Deve cercare le tessiture d’un umanesimo nel quale “ogni individuo quali che siano la sua estrazione, razza e handicap, possa trovare liberamente il suo posto” (Jean Vanier).

C’è un abisso “tra la cultura diffusa con i suoi desideri di prestazione, eccellenza e apparenza (“la tirannia della normalità”) e la possibilità di tale umanesimo”. nota con durezza Julia Kristeva.

Sarà l’incontro con la debolezza, e la sua accettazione, a portare a termine il lavoro questa l’indicazione folgorante di Jean Vanier.

In una delle prime lettere a Jean, Julia parla di come con David – incontrato con attenzione e nella fatica, nell’incompiutezza e impotenza insuperabili – si sia data la scoperta: “David ha una bella bio-grafia nella coabitazione con la sua fragile ed enigmatica zoè”.

Quell’anno scolastico di anni fa è stato un tratteggio d’orizzonte: lo sguardo di Ahmed aveva bucato le ombre di maestre, compagne e compagni. E ne erano usciti tutti come all’aperto.

Ahmed e Moni, e i compagni e le compagne, avevano maturato una loro eccellenza e un loro merito unico ed originale, in una scuola dove l’insegnamento-apprendimento prendeva forma dall’intreccio delle storie, dei corpi, dei paesaggi interiori delle ragazze e dei ragazzi che vi si raccoglievano.

 

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